Il racconto di Vito Fiorino che, con altri sette imbarcati sulla sua nave, salvò 47 persone dal naufragio al largo di Lampedusa: «In dieci anni non è cambiato nulla. Anzi, la situazione è peggiorata»
Vito Fiorino è a Lampedusa. Continua a fare i suoi gelati. Proviamo a chiamarci varie volte, ma sull’isola ha problemi di connessione. Poi finalmente ci sentiamo. Ci sono alcune domande, forse banali, ma mi girano nella testa da quando ho pensato di fare questa chiacchierata con lui per parlare del 3 ottobre 2013.
Che cosa è cambiato in questi dieci anni, da quando hai fatto quel salvataggio? E che cosa è cambiato dentro di te? Come sei cambiato tu e cosa è mutato per le persone che tentano di arrivare in Europa?
Grossi cambiamenti io non li ho visti. Anzi, oserei dire che vedo dei peggioramenti. Nel senso che fino al 2013, quando c’è stata questa grossa tragedia, sembrava fosse tutto un po’ sotto controllo. C’era qualche piccolo naufragio, sì, ma quello del 3 ottobre è stato il naufragio che ha segnato le persone e la situazione dei viaggi della speranza nel Mediterraneo.
Chiaramente, dopo quella tragedia sembrava che tutto dovesse cambiare in meglio, che nulla di simile potesse più accadere. Ma poi, francamente, non è cambiato assolutamente nulla: ricordiamo la tragedia dell’11 ottobre dove sono morti i 268 siriani e, a distanza di dieci anni, riviviamo la tragedia nella strage di Cutro e in quella nel mar Egeo, di fronte alle coste greche.
Le cose migliorano quando si parla di meno morti, quando ci sono meno persone che attraversano il Mediterraneo, ed è certo che dal 2013 a oggi si contano oltre 26mila morti – o meglio, recuperati. Ma quanti altri ce ne saranno di cui non sapremo mai nulla? Direi che questa è un’altra tragedia che è rimasta nascosta.
Cosa è cambiato in me? È cambiato che riesco a coinvolgere le persone, riesco a dialogare, riesco a raccontare la tragedia che ho vissuto, cosa che fino al 2018 non riuscivo a fare. Mi prendeva l’emozione e il pianto. E non riuscivo a parlare. Ricordavo, ma le parole non uscivano. Era una situazione difficile e particolare.
Sicuramente, se avessi avuto un aiuto psicologico da subito, dopo la tragedia, probabilmente sarei stato un po’ più tranquillo e mi avrebbe aiutato, dandomi degli strumenti per superare questi momenti che sono molto difficili, soprattutto quando vieni a sapere di nuove tragedie con tanti morti e rivivi quella notte.
«I bambini delle elementari sono dei bulldozer: cominciano a fare domande, ma domande di spessore, non stupide o banali»
Che cos’è che ha fatto scattare in te la voglia di raccontare, di confrontarti con le persone, di ritornare a quella notte? Per cinque anni non hai detto nulla e poi, improvvisamente, cosa è successo?
Sì, qualcosa è successo. Nel 2017 sono stato contattato dall’associazione Gariwo del Giardino dei Giusti. Mi dicono che nel 2018 ci sarà questa nomina ufficiale a Milano e, dopo questa nomina di Giusto dell’umanità, mi avrebbero invitato a novembre a un loro incontro con varie organizzazioni. In quell’incontro, poi, mi è stato chiesto così, senza che me lo aspettassi, di raccontare che cosa era successo quella notte del 3 ottobre 2013.
È stato abbastanza difficile perché così, di punto in bianco, mi sono trovato a dover raccontare la realtà. Però ce l’ho fatta e ho parlato per circa venti minuti. Da quella sera in poi hanno cominciato ad arrivare le richieste di presidi, di professori, di associazioni che mi chiedevano se me la sentivo di andare a parlare con i ragazzi e i giovani. Ho detto “proviamo” e poi mi sono reso conto che questo provare mi aiutava. Mi dà forza e coinvolgimento. Da lì ho continuato sempre, accettando incontri e inviti, raccontando della mia barca – la “Gamar” – e delle sette persone che quella notte erano con me.
Da questi incontri con gli studenti – dalle elementari fino all’università – ho sempre un riscontro positivo.
I bambini delle elementari sono dei bulldozer: cominciano a fare domande, ma domande di spessore, non stupide o banali. Quelli delle medie un po’ meno e quelli delle superiori ancora meno. Gli universitari quasi nulla: non perché siano disinteressati, ma perché vengono coinvolti emotivamente sempre di più, perciò subentra l’emotività e fanno più fatica a fare domande. Poi consiglio a tutti comunque di scrivermi una mail, se hanno delle domande che sul momento non sono riusciti a fare.
Nel 2019 faccio un incontro in una scuola del Municipio 8 a Roma. Questi bambini di seconda elementare avevano adottato un Giusto. Ma non mi conoscevano: la maestra voleva partecipare a questo concorso di adozione e così avevano guardato le varie storie dei Giusti e avevano scelto Vito Fiorino.
I bambini spesso esprimono i loro pensieri attraverso dei disegni. Quando ho visto i loro disegni per la prima volta, erano meravigliosi. C’era la Gamar, gente in mare coi salvagenti, io che parlavo con la nuvoletta. Insomma, tutta una cosa figurata. Quando ho saputo di questo incontro ero molto felice, sono entrato in classe e ho detto loro: “Buongiorno. Avete fatto dei bei disegni e siete molto bravi”, quando a un certo punto si alza un bambino e dice: “Ma tu sei Vito Fiorino! Ti ho riconosciuto dalla voce!”. Puoi immaginare cosa sia poi successo in quella classe.
Mi fai qualche esempio di domande fatte dai bambini?
A volte hanno usato anche delle parole molto forti. Ad esempio: “Ma tu gli vuoi bene a queste persone che hai salvato?”, e io: “Ma certo che gli voglio bene, come loro vogliono bene a me”. “E lo rifaresti?” “Sì, lo rifarei, però spero che non accada più una tragedia del genere e che tutte queste persone arrivino tranquillamente”.
Poi mi chiedono il significato del nome della mia barca (che ora ho venduto). Si chiama Gamar, dove “Ga” sta per Gabriel, mio nipote, e “Mar” sta per Martina, le prime tre lettere del nome di Martina.
Poi continuano ad alzare la mano bambini che vogliono fare tre, quattro, cinque domande.
«È certo che dal 2013 a oggi si contano oltre 26mila morti – o meglio, recuperati. Ma quanti altri ce ne saranno di cui non sapremo mai nulla?»
I bambini ti hanno chiesto se sei ancora in contatto con questi ragazzi che hai salvato? Ci puoi dire qualcosa in merito a questo rapporto che si è creato? Che cosa è successo?
Devo dire che si è creato veramente un rapporto familiare.
Ti dico solo un dettaglio di quando abbiamo salvato, il 3 ottobre, questi 46 ragazzi e uomini e solo una donna.
Una decina di giorni dopo la tragedia abbiamo iniziato a incontrarci con questi ragazzi. Li abbiamo ritrovati nell’hangar dell’aeroporto quando c’è stata la funzione funebre per ricordare le prime 119 vittime. Poi gli abbiamo raccontato le nostre attività e, una sera, uno di loro che avevo salvato venne in gelateria con un ragazzo eritreo che parlava molto bene l’italiano. Mentre lui era al telefono con un’altra persona, un parente o un amico.
A un certo punto mi passa il telefono e, nel mentre, dice a quella persona dall’altra parte del ricevitore: “Ti passo my father”. Io non so l’inglese e non avevo capito. Non sapevo il significato di quella parola. Allora il ragazzo eritreo me l’ha tradotta: “Ti passo mio papà”.
Devo dire che è stato molto emozionante, e questo episodio credo che spieghi al meglio il rapporto che vivo con queste persone.
Adesso sei tutt’ora in contatto, se non con tutti, con molti di loro, giusto?
Sono in contatto con molti di loro. Ci sentiamo per gli auguri di Natale e di Pasqua, ogni tanto ci sentiamo perché io gli rompo le scatole per metterli in contatto con qualche giornalista o qualche amico che vuole sapere le loro storie. Almeno con otto-dieci di loro ho un collegamento diretto, e anche loro mi mandano dei messaggi. A volte, nei racconti che faccio nelle scuole o nelle associazioni, dico che se avessi una compagna gelosa, si preoccuperebbe e mi chiederebbe quante donne ho in giro per l’Europa. Perché i loro messaggi sono veramente di amore, di vita: cose che ti scuotono e ti fanno capire che sono vere.
Abbiamo dato loro la possibilità di continuare a vivere, di essere salvati. Però devo dire che sono molto riconoscenti per quanto è accaduto quella notte.
Sai più o meno dove sono in Europa o se ce n’è qualcuno in Italia?
Quella mattina ne sono stati salvati 155 e ne sono morti 368. Le 155 persone salvate sono in giro per l’Europa: in Germania, Olanda, Danimarca, soprattutto in Svezia, in Belgio e solo uno in Italia, un ragazzo eritreo. Anche lui aveva raggiunto Stoccolma, ma quando ha fatto il controllo delle impronte digitali proprio a Stoccolma ha scoperto che era già schedato in Italia. Nessuno di loro ha voluto lasciare le impronte digitali in Italia.
Purtroppo lui, quando è stato salvato, stava morendo. Il pomeriggio era proprio messo male e con l’elicottero l’avevano portato nell’ospedale di Palermo. Un poliziotto aveva preso a sua insaputa le impronte digitali e le aveva immesse in rete, nel sistema di riconoscimento. Lui non sapeva di questa cosa, ha speso anche mille euro per raggiungere Stoccolma da Milano, e quando è arrivato, come tutti, ha chiesto l’asilo politico. Ma a lui è stato detto che doveva tornare in Italia, perché le sue impronte erano già lì (e, come sappiamo, il Paese di primo approdo dove vieni riconosciuto è quello dove poi devi richiedere asilo). Adesso vive in Italia dopo essere stato rimpatriato con un corridoio umanitario tramite la comunità di Sant’Egidio.
Ricordo come se fosse adesso un ragazzo che aveva poco più di tredici anni: quando gli chiesi quale fosse la sua destinazione, lui mi disse che voleva raggiungere il Canada perché lì aveva dei parenti e degli amici. Di lui non ho più notizia, però credo che abbia raggiunto il Canada. Sono persone veramente determinate, con valori molto importanti. Credo e spero ce l’abbia fatta.
Prima hai detto che c’erano altri con te sulla barca che ti hanno aiutato a salvare queste persone, questi ragazzi. Vogliamo ricordare chi sono, visto che magari non vengono spesso nominati – anzi, forse quasi mai? Magari tu li ricordi nei tuoi incontri, ma il pubblico conosce solo Vito.
Io ne parlo sempre nei vari incontri, perché sembra che abbia fatto solo io questo atto di salvataggio. Vero, io ne ho salvati tanti. Ma molti sono stati tirati a bordo da altre persone che erano con me. C’è Linda, che è una pesarese; poi ci sono Sciarani e Grazia, che sono di Catania; c’è Rosalia, che è una napoletana, moglie di Carmine, anche lui napoletano: sono due ottici che hanno un’attività commerciale a Lampedusa. Alessandro, anche lui catanese con un’attività a Lampedusa, e Marcello, anche lui di Catania. Quello che ho fatto io l’hanno fatto anche loro, perciò è giusto che ogni merito vada suddiviso, anche se loro ne parlano molto poco. Ad esempio, Alessandro non ne vuole più parlare. È stato lui quella mattina, intorno alle 6:15, 6:30, a essere svegliato da delle grida che arrivavano dal mare, ed è stato l’unico a sentirle, di otto persone.
Grazie a lui vi siete poi svegliati tutti. Ci racconti come è andata?
Grazie a lui, sì, perché io dormivo sottocoperta quella mattina, perciò non avrei assolutamente sentito niente; di loro quattro dormivano nella cabina di pilotaggio, ma solo lui ha sentito queste voci. Io ho sentito mettersi in moto la Gamar: ha tolto l’àncora e si è mossa. Ma dopo pochi secondi di navigazione il motore si è spento, e allora ho pensato che fosse successo qualcosa al motore stesso e mi sono precipitato in cabina di pilotaggio.
Alessandro mi disse di fare silenzio, di stare zitto. “Come, zitto? Dimmi cosa è successo al motore!” Ma al motore non era successo niente. Alessandro mi guardò in faccia e mi disse: “Tu non senti buciari?”. Buciari in siciliano vuol dire grida di dolore.
Io non sentivo niente: c’erano intorno tanti gabbiani che facevano versi e tutto era confuso. Anche gli altri sulla barca non sentivano niente. Solo lui sentiva queste voci e così ho detto: “È inutile che stiamo a discutere, metti in moto e vai dove senti queste voci”, e così ha fatto.
C’è qualcosa in questi anni che non hai mai raccontato o qualcosa che avresti voluto dire e non hai mai detto e che adesso vorresti dire?
Racconto molto poco alcuni particolari della mia vita. Avevo solo quattordici o quindici anni, e sono stato un naufrago. Ero a Bari, ero stato invitato da un ragazzo più grande di me che aveva vent’anni. Siamo usciti con un gommone e, anche se lui era stato avvisato da suo fratello che c’era vento di terra, siamo andati lo stesso. Ed era un gommone senza motore. Ci siamo spinti un po’ al largo per fare il bagno e abbiamo buttato l’àncora, che era un pezzo di cima con un sasso legato al fondo.
Poi il vento ci ha spinti ancora più fuori e non siamo più riusciti a rientrare con le nostre forze a riva. Il vento era troppo forte. Quando oramai eravamo in preda al panico, avevamo perso la speranza che qualcuno potesse arrivare e si vedeva solo la costa bassa in lontananza, dei pescatori che rientravano dalla loro battuta di pesca ci hanno visto e ci hanno portato in salvo. Probabilmente non sarebbe successo niente. Però andavamo incontro alla notte, non avevamo i razzi di segnalazione, non avevamo niente. Era proprio un gommone: non dico di quelli da bambino, gonfiabili, ma quasi.
Questa cosa l’avevo rimossa e non la racconto spesso. Questa credo sia la quarta o quinta volta.
«I politici li vorrei portare su quella barca che ora non è più mia, la Gamar. Vorrei portarli al largo, fargli vedere e fargli vivere quella situazione»
Ti chiedo un’ultima cosa. Hai un messaggio, qualcosa che vuoi dire un po’ a tutte e a tutti noi, all’Europa, ai nostri politici, a chi vuoi tu?
Io sono un migrante. Avevo solo undici mesi quando mia madre, da Bari, dove sono nato, ha voluto raggiungere mio padre a Milano. Eravamo i terroni degli anni Cinquanta. I terroni della Lombardia. Poi ci sono i terroni del Piemonte e i terroni piemontesi che sono andati a lavorare nel Veneto. Devo dire che questa cosa inizialmente non mi ha toccato. Ha toccato molto mio padre, in particolare, i miei genitori, perché venivano trattati male: sembrava che noi fossimo gli invasori, quelli che portavamo via il lavoro alla gente del Nord. Ma invece era tutta un’altra cosa. Con le nostre forze, con il nostro lavoro siamo riusciti a stare bene noi e abbiamo sicuramente arricchito il Nord.
Per cinque o sei anni ho dormito in una cantina con i miei genitori e mio fratello perché eravamo nella povertà più totale e si faceva fatica a trovare una casa in affitto: c’erano i famosi cartelli “non si affitta ai meridionali”. Oggi non si affitta agli stranieri. Non è cambiato praticamente nulla e sono passati settant’anni, io ne ho 74 quest’anno. Avevo undici mesi ed erano gli anni Cinquanta. Quello che evidenziano i miei racconti è proprio questo: non è cambiato niente. Sono cambiate le persone, che oggi arrivano con i viaggi della speranza. L’unica differenza è che noi non abbiamo rischiato nel viaggio, loro rischiano la vita.
I politici li vorrei portare su quella barca che ora non è più mia, la Gamar. Vorrei portarli al largo, fargli vedere e fargli vivere quella situazione. Fargli capire che cosa vuol dire affrontare un viaggio, che cos’è la disperazione di queste persone. Io credo che in tutte le famiglie ci sia qualcuno che è emigrato, negli anni Cinquanta o anche molto prima, verso le Americhe o nel Nord Europa per lavorare nelle miniere. Perché ci dobbiamo dimenticare di tutto questo e accusare queste persone di invadere il nostro territorio? E poi abbiamo anche bisogno di loro. Sono sempre meno i nostri connazionali e credo che anche all’estero sia lo stesso. Non vogliamo più fare molti lavori, soprattutto quelli pesanti. Allora cerchiamo di dare dignità e valore a queste persone che scappano dai loro Paesi perché sono vittime di maltrattamenti, di dittature spesso messe in piedi dall’Occidente per sfruttare le loro risorse e i loro giacimenti.
Siamo veramente un popolo di ipocriti, a livello europeo e mondiale. Io dico sempre che dovremmo utilizzare quella parola magica con la maiuscola che è Amore. Io lo sento molto e questo mi carica, mi fa lottare anche contro le prese di posizione nei confronti di queste persone che sono uguali a noi. Cambia il colore della pelle, ma che idiozia, il colore della pelle.
Fonte: Rivista “Ossigeno” di People Editore