Con Matteo Messina Denaro scompare l’ultimo esponente della mafia stragista, la vecchia Cosa Nostra di Riina, e si chiude un’epoca. La nuova mafia è un’altra cosa, e sbaglia chi pensa che si tratti di un fenomeno sconfitto o meno pervasivo. È presente eccome nella vita del Paese, condiziona la politica e le istituzioni e ci impone di mantenere alta la guardia, soprattutto in una fase storica caratterizzata dall’arrivo dei fondi del PNRR e dalla necessità di vigilare che siano davvero spesi nell’interesse della collettività e non delle solite lobby e logge, a vantaggio degli amici degli amici.
Volendo inquadrarlo storicamente, possiamo dire che “U siccu”, com’era soprannominato, abbia costituito un tramite fra le due stagioni, trattandosi di una personalità complessa e poliedrica, dotata di discreta cultura e molto abile a sfruttare le caratteristiche della modernità per consentire all’organizzazione criminale di ampliare il proprio giro di affari e i propri legami di potere.
Non ha parlato e c’era da aspettarselo, com’è abbastanza evidente che si sia lasciato prendere nel momento in cui le condizioni di salute non gli consentivano più la latitanza. Almeno da questo punto di vista, sia pur con incredibile sfrontatezza, è stato sincero. Se ne va con il suo carico di misteri, conoscenze e segreti che difficilmente verranno alla luce, a cominciare dai nomi dei mandanti delle stragi del biennio ’92-’93 e dalle implicazioni istituzionali che hanno contraddistinto quella fase di rivolgimenti internazionali. Aggiungiamo, senza complottismi di sorta, che se Messina Denaro si è potuto nascondere con tanta efficacia, ciò non è stato possibile solo per le tristi caratteristiche di una terra magnifica ma talvolta desolante come la Sicilia bensì per il suo essere un uomo di equilibrio e di equilibri, sempre sul crinale, in un’esistenza dedicata al male e segnata da una particolare maestria nel camminare sul filo degli eventi.
Nell’universo mafioso è stato un personaggio atipico: in continuità con gli anni del sangue e dell’orrore ma pronto a “normalizzare” i rapporti una volta raggiunti gli obiettivi e a tessere una rete di relazioni che gli ha garantito una centralità e una protezione su cui sembra non esserci più alcun dubbio. È stato, insomma, un criminale con uno spiccato senso degli affari e un discreto fiuto politico, in grado di insinuarsi nel vuoto del nostro vivere civile e di approfittarne da par suo. Per questo, ribadiamo, sbaglia chi pensa che la battaglia contro la mafia sia stata vinta. Con ogni probabilità, non vedremo più automobili saltare in aria o giornalisti riversi a terra in una pozza di sangue, ma l’intermediazione parassitaria e l’attenzione spasmodica agli appalti, nel segno di un imprenditoria malata e predatoria, sono elementi con i quali saremo costretti a fare i conti ancora a lungo.
Come detto, l’aspetto più doloroso, per chi come noi ha un’inesauribile sete di verità e giustizia, è la sensazione che il boss si sia portato nella tomba segreti indicibili, misteri atroci e tanti, troppi nomi che godono ancora di stima e rispetto, quando invece dovrebbero essere considerati i veri responsabili del nostro degrado e della degenerazione del nostro stare insieme. Del resto, se si è potuto permettere di accumulare una fortuna, se si è potuto muovere indisturbato nella zona di cui, di fatto, era il padrone e se ha potuto esercitare quasi una forma di egemonia culturale, in un contesto di disperazione e arretratezza, è perché ha capito, prima e meglio di altri, come stessero effettivamente le cose, quali e quanti interessi ci fossero dietro a determinate decisioni e quanto l’intera fase stragista fosse legata all’affacciarsi di tempi nuovi, in una Repubblica fragile e posta di fronte al bivio fra due destini entrambi possibili ma radicalmente opposti. E come insegnava Gramsci, fra il non più e il non ancora nascono i mostri. Dopo l’abbattimento del Muro di Berlino, avremmo potuto conquistare un’autentica democrazia dell’alternanza; abbiamo avuto, al contrario, un bipolarismo forzato e tenuto in scacco da una cappa politica e mediatica, intrisa di conflitti d’interessi e straziata da un populismo strisciante che ha avuto nella disintermediazione, nelle forzature istituzionali e negli attacchi alla Costituzione la propria dimostrazione più tangibile.
Messina Denaro, stando alle osservazioni di chi ha studiato con attenzione l’ambito mafioso, sapeva molto più di quanto ci abbia detto, garantendosi così una libertà d’azione che costituisce un’umiliazione per chi si ostina a credere nello Stato e in quelli che dovrebbero essere i suoi servitori. Non sappiamo quali e quanti di loro abbiano servito, in realtà, un altro Stato, attenendosi a ordini provenienti dall’alto, forse anche da fuori d’Italia, per perseguire scopi che nulla hanno a che vedere con il progresso della collettività. Sappiamo solo che oggi è ancora più forte il bisogno di tutte e tutti noi di far luce su vicende oscure, in nome dell’onestà, della correttezza, della dignità della persona e dei principî costituzionali che costituiscono la nostra linea editoriale e la nostra ragione di esistere. Una missione politica e civile cui non intendiamo rinunciare, meno che mai ora che un uomo da tempo malato ci ha detto addio. Non si trattava certo di una brava persona, ma la pietà umana è indispensabile, sempre e comunque, anche nei confronti di un delinquente. Perché noi nello Stato ci crediamo ancora e continueremo a crederci, pur denunciandone le storture, i compromessi osceni, le menzogne, la crudeltà e il cinismo. Non rinunceremo alla nostra diversità, di cui fa parte pure il rispetto per un uomo che non ne ha mai avuto nei confronti delle sue vittime e della vita stessa.
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