Anche la memoria e il ricordo di Federico Aldrovandi sono diventati maggiorenni. 18 anni fa a Ferrara è morto un ragazzo da due mesi maggiorenne mentre poco prima dell’alba stava tornando a casa a piedi dopo una notte passata in discoteca con gli amici. Incontrò una pattuglia di poliziotti e perse la vita dopo un pestaggio durato quasi mezz’ora, come testimoniò uno degli agenti in servizio sulla prima volante, poi raggiunta per rinforzare l’intervento da una seconda auto. Una tragedia divenuta simbolica di abuso della forza da parte delle forze dell’ordine, una vicenda processuale che è terminata con la sentenza definitiva di condanna dei 4 agenti, 3 anni e sei mesi per eccesso colposo. Il ricordo di Federico resta forte, quello dei genitori Patrizia e Lino, del fratello Stefano, degli amici, delle associazioni e dei gruppi del tifo organizzato. Il giudice Luca Ghedini è stato relatore ed estensore della sentenza d’appello che il 10 giugno 2011 ha confermato le condanne in primo grado.
Cosa rappresenta questa “piccola vicenda” nella storia processuale italiana?
Il processo per l’omicidio di Federico Aldrovandi ha rappresentato un punto di svolta poiché è stato il primo caso in cui le forze di polizia sono state ritenute responsabili per la morte di un soggetto che avevano in custodia; la dinamica processuale e lo stesso approdo cui sono arrivate le sentenze dimostrano, però, come la risposta giudiziaria sia stata carente. Infatti, le indagini su personale della polizia di stato sono state affidate alla stessa polizia di stato; il pubblico ministero di turno è stato “facilmente dissuaso” dal recarsi sul posto sulla scorta dell’informazione che si era trattato di una “morte per droga”; quest’ultima ipotesi è stata pervicacemente seguita, malgrado le evidenze del semplice esame autoptico suggerissero ben altro, sino a quando il pubblico ministero non è stato sostituito dopo che è divenuto di pubblico dominio che la polizia di stato stava indagando sul figlio dello stesso pubblico ministero per traffico di stupefacenti; infine, si è scelta una imputazione di “basso profilo” di omicidio colposo, quando la configurabilità del reato di omicidio preterintenzionale era di solare evidenza.
La giustizia arriva dove portano le prove, allora e oggi il dubbio è che ci fosse anche “qualcos’altro” che non è stato possibile accertare?
Una recente sentenza, quella sui mandanti e su un altro esecutore della strage del 2 agosto, ha stabilito che esiste un “diritto alla verità”, costituzionalmente garantito. Questo diritto alla famiglia di Federico e a noi tutti cittadini è stato garantito soltanto in parte. Solo sei persone sanno cosa veramente è successo nel piccolo parchetto dell’Ippodromo di Ferrara nelle prime ore del 25 settembre 2005: quattro avevano il diritto di tacere e di difendersi mentendo, ma l’obbligo morale, quali rappresentanti dello stato, di dire il vero; un’altra ha visto ma non ha voluto parlare; l’ultima è stata uccisa. Almeno anche la Corte di Cassazione ha detto che non “è morto un drogato”, come con calunniosa forza hanno sostenuto in tanti, anche chi continua a raccontare le favole sui palestinesi coinvolti nella strage alla stazione di Bologna.
In tanti hanno sottolineato la gravità dei fatti e la mitezza della pena. In particolare nonostante la condanna è apparso quanto meno fuori ingiusto che i 4 responsabili abbiano continuato a vestire la divisa.
La forbice edittale della pena per il reato di omicidio colposo va da sei mesi a cinque anni di reclusione. Il Tribunale di Ferrara ha comminato la una di anni 3 e mesi 6, di cui 3 coperti dall’indulto. La pena all’evidenza inadeguata rispetto alla gravità del fatto deriva dalla scelta, che noi come Corte d’Appello non potevano sindacare, di contestare, come dicevo, il reato di omicidio colposo e non quello di omicidio preterintenzionale. Consequenziale è stata la possibilità per la loro amministrazione di tenere in servizio i quattro condannati. Così va il mondo nel nostro paese: i quattro poliziotti che hanno ucciso Federico continuano a portare la divisa; il primo pubblico ministero ha fatto carriera….
Un caso esemplare nel rapporto tra giustizia e società civile e mondo informazione?
Si dice sempre che i processi non vanno fatti sui media ma nelle aule di giustizia, ma se la madre di Federico non avesse aperto un blog e i contributi sul quel blog non avessero acceso i riflettori sul caso, forse Aldrovandi sarebbe ancora morto per droga…
Chi è Federico Aldrovandi per il giudice e cittadino Ferrarese Luca Ghedini?
Sono nato e cresciuto nello stesso quartiere di Federico; mio babbo era, come la mamma di Federico, un dipendente comunale. Al posto di Federico poteva esserci chiunque tra noi.