Come ben sapeva chi ha vissuto il periodo dell’ascesa del nazi-fascismo, le dittature non nascono con la Marcia su Roma o col rogo del Parlamento tedesco. Quei momenti costituiscono l’apice della barbarie, ma quando si arriva a quel punto non è perché qualcuno soffra di delirio di onnipotenza ma perché quel qualcuno sa benissimo di avere dalla sua il consenso popolare. I regimi non nascono quasi mai in condizioni di benessere, non in Occidente almeno. Quando si verificano determinati episodi, quando cominciano ad affermarsi certi personaggi, quando tendenze un tempo considerate incompatibili con il vivere civile iniziano a essere accettate, quando sembra normale ciò che normale non è e non dovrebbe mai essere, significa che la democrazia ha sbandato. O, per meglio dire, che è stata tradita da coloro che l’avrebbero dovuta salvaguardare e valorizzare. Quando, ad esempio, da persone che si dicevano di sinistra le fasce sociali più deboli hanno ricevuto solo sberle, per quanto concerne i diritti dei lavoratori, il mondo della scuola ma anche la tenuta delle istituzioni e il rapporto con le stesse, quando il Parlamento è stato costantemente umiliato con strappi e forzature indicibili, è ovvio che chi si è reso protagonista di questa deriva abbia aperto la strada a qualcosa di ben peggiore.
Non è un problema italiano: investe le due sponde dell’Atlantico, l’intera Europa e un’America ormai in guerra con se stessa. E quando nessuno si pone il problema del linguaggio che viene utilizzato all’interno di contesti televisivi di grande ascolto e massima notorietà, il disastro è completo. Perché poi sempre lì si torna, a quella maledetta notte del luglio 2001, alla Diaz e alle sue conseguenze. Il verbo “bonificare”, tanto per fare un esempio, venne sdoganato in quella circostanza da un servizio giornalistico che si commenta da solo e, da allora, non è più uscito dal nostro immaginario collettivo. Il guaio è che ormai lo utilizziamo con nonchalance, senza renderci conto del portato fascista del termine, senza capire che un’espressione del genere è fastidiosa persino quando si parla di paludi o di discariche ma è assolutamente inconcepibile se riferita a degli esseri umani, si trattasse anche di un covo di mafiosi. Si torna lì perché eventi del genere sono periodizzanti: danno un senso e una direzione precisa al periodo storico che inaugurano. Non a caso, Amnesty International ha lanciato un appello (
https://www.amnesty.it/appelli/il-reato-di-tortura-non-si-tocca/?utm_source=DEM&utm_medium=Email&utm_campaign=DEM9803&fbclid=IwAR2fQKqyeklh1m-oN4zhg8BTprcD5xAolVuf9rs600SN7wQfVfj0rYSrTQQ), che invitiamo chiunque a sottoscrivere, contro i due disegni di legge in discussione al Senato che prevedono, rispettivamente, la modifica e l’abrogazione del reato di tortura. Scusate se ci torniamo su, ma evidentemente non è ancora chiaro quando e perché venne introdotta questa norma. No, non si trattò della mera ratifica della Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura. Il reato di tortura venne introdotto nel nostro Paese in seguito ad alcune sentenze della Corte di Strasburgo, a cominciare dalla Cestaro contro Italia, relative alla mattanza avvenuta alla Diaz. È figlio, dunque, dell’impegno infaticabile dei magistrati che affrontarono, con rara professionalità, i processi riguardanti i già menzionati fatti della Diaz e quelli ancora più gravi occorsi nella caserma di Bolzaneto. E soprattutto è l’ultimo baluardo che ci è rimasto contro abusi e violenze, non certo una forma di pregiudizio nei confronti di chi indossa meritoriamente una divisa.
Non a caso, in una lettera rivolta al presidente La Russa, Amnesty Italia afferma: “In questi sei anni, nelle carceri e in altri luoghi di detenzione, non sono purtroppo mancati episodi di violenza perpetrati da pubblici ufficiali di gravità e caratteristiche tali da essere perseguiti come atti di tortura.
L’accoglimento di una proposta di abrogazione del reato di tortura costituirebbe un arretramento grave per la tutela dei diritti umani nel nostro Paese e metterebbe a rischio la punibilità di chi usa la tortura come strumento di sopraffazione e la possibilità di assicurare giustizia per le vittime”.
Stiamo assistendo a una deriva pericolosa. Il pacchetto propagandistico che ha fatto seguito alla tragedia di Caivano, oltre a ribadire la passione di questo governo per la strumentalizzazione dei drammi, altro non è che l’ultimo tassello in un mosaico di furia istituzionale che, dai rave alla strage di Cutro, passando per la scuola e per il cattivismo diffuso in ogni dove, sta provocando una mutazione antropologica del Paese che va ben al di là delle singole leggi. La nostra preoccupazione è che tutto l’odio che si sta sprigionando in questa fase, la violenza, la discriminazione, il razzismo, l’idea di giustizia fai-da-te che caratterizza le periferie, fisiche ed esistenziali, delle nostre città, tutto questo orrore, che non dipende direttamente dal governo ma che nessuno sta contrastando in maniera adeguata, rimarrà anche quando questo esecutivo se ne sarà andato finalmente a casa.
L’aspetto più atroce dell’intera vicenda, tuttavia, è a nostro giudizio l’acquiescenza di una parte dei mezzi d’informazione, in un clima che ricorda da vicino quello dei tempi di Luigi Albertini, lo storico direttore del Corriere della Sera che si illudeva di poter normalizzare e convivere con il fascismo.
Anche per questo ci è particolarmente caro un editoriale, intitolato “Sincerità”, che Mario Borsa, un personaggio dai tratti risorgimentali, autenticamente patriota e anti-fascista, pubblicò sul Corriere d’Informazione (così si chiamò per un anno il Corriere) il 22 maggio del 1945.
Scrisse Borsa, che di quel Corriere era il direttore: “Riprendendo la penna dopo venti anni di forzato silenzio, vorrei, anzitutto, consigliare i lettori a fare un atto di sincerità. Mussolini non è più. E sta bene. Ma noi siamo ancora qui. L’uomo ha avuto ciò che si meritava. E sta bene. Ma siamo sicuri di avere avuto noi ciò che ci meritavamo? Mussolini ha finito la sua vita. E sta bene. Mussolini ha chiuso gli occhi per sempre. E sta bene. Ma saremo noi tanto avveduti da tenerli d’ora in avanti bene aperti? Siamo franchi, siamo sinceri, siamo severi, siamo duri con noi stessi. Diciamo brutalmente la verità e vediamo di meditarla seriamente. Solo così eviteremo gli errori di un passato al quale dobbiamo le presenti immani calamità. La colpa non è tutta e solo di Mussolini. Ecco una prima verità. Egli ha corso, con ciarlatanesca iattanza, la sua avventura ed è andato – non per merito suo – molto più in là del suo folle sogno cesareo. Le sue responsabilità sono spaventevoli. Sono documentate. La storia giudicherà. Ma la colpa non è tutta sua né del regime che il grand’uomo credeva di avere saldamente instaurato”.
Ci siamo sempre battuti contro l’odio in tutte le sue forme, ma verso una categoria la pensiamo come Gramsci. Anche noi, infatti, odiamo gli indifferenti perché pensiamo che vivere significhi essere cittadini e partigiani. Il silenzio, al contrario, mai come ora, è complicità.
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