Poco più di due anni sono passati da quel Ferragosto 2021 in cui il mondo si svegliò con l’incubo di un Afghanistan riprecipitato nel Medioevo talebano. Da quella terra sfortunata giunge ora una notizia che non solo conferma i cupi presagi di allora, ma delinea un quadro drammatico della situazione dei diritti umani per tutti i cittadini afghani e in particolare le donne.
Sono infatti le donne l’oggetto delle gravi violazioni dei diritti umani denunciate in un rapporto di Human Rights Watch che pone le premesse per l’apertura di un caso presso il Tribunale Penale Internazionale (ICC) per crimini contro l’umanità e, nella fattispecie, per il crimine di “persecuzione basata sul genere”.
https://x.com/hrw/status/1700008636175519912?s=12&t=zeLc_Vm7OE40iZKICc9BlA
Come recita la “Policy on the Crime of Gender Persecution”, stilata l’anno scorso dall’ICC, il suddetto crimine inquadra e punisce gli atti “commessi contro persone in base al sesso e/o al costrutto sociale e ai criteri usati per definire il genere”.
I cosiddetti “gender-based crimes” vedono come perpetratori coloro che, intenzionalmente e con una politica attuata su larga scala e in modo sistematico, mirano a “punire coloro che avrebbero trasgredito i criteri di genere che definiscono le forme ‘accettate’ di espressioni di genere che si manifestano, ad esempio, in ruoli, comportamenti, attività o attributi”. Questi criteri – aggiunge la Corte – regolano ogni aspetto della vita, determinando la misura della libertà di movimento degli individui, le loro opzioni riproduttive, chi possono sposare dove possono lavorare, come possono vestirsi e se hanno semplicemente il diritto di esistere”.
Esiste già un precedente di procedimento aperto per un caso di persecuzione di genere, risale al 2018, e ha riguardatole violenze sessuali e i matrimoni forzati registratisi in un altro Paese allo sbando come il Mali.
Ma come precisamente i talebani avrebbero commesso il crimine contro l’umanità di persecuzione di genere? Il documento di HRW delinea un vasto insieme di atti e procedimenti con cui i talebani hanno attuato restrizione alle libertà e ai diritti di donne e che coprono un periodo che va dal 18 settembre 2021, ad appena un mese dalla presa del potere da parte degli studenti coranici, al 4 aprile 2023.
I talebani esordiscono sulla scena limitando il diritto allo studio delle minori al solo ciclo elementare. A questo odioso abuso se ne aggiungono tanti altri: il divieto di viaggiare oltre un raggio di 72 km senza un “guardiano” (mahram) che deve essere un membro maschio della famiglia, restrizione poi estesa a tutti i voli interni e internazionali; obbligo di un “velo appropriato”, possibilmente nella forma del nerissimo “chadari” che copre tutto il corpo, incluso il volto; divieto di frequentare parchi, palestre e saloni di bellezza; obbligo di restare a casa per le dipendenti pubbliche; sospensione del diritto di lavorare con le Ong; divieto di lavorare per l’Onu.
Il risultato, rimarca HRW, è che in Afghanistan oggi le donne sono di fatto “prigioniere virtuali delle loro case”. Oppresse da un senso di vuoto e di disperazione che appare senza rimedio, impossibilitate ad assumere un qualsiasi ruolo che possa conferire loro dignità e motivazione, le donne afghane sono vittima di una “crisi di salute mentale” di massa tanto più grave alla luce dei cronici problemi della sanità di un Paese disastrato.
Era proprio questo il quadro tratteggiato una decina di giorni fa da un inquietante articolo del Guardian, che descriveva il sintomo più grave di questo stato di abbandono: l’esplosione del tasso di suicidio femminile, che fa oggi dell’Afghanistan uno dei pochi Paesi al mondo in cui sono più le donne che gli uomini a togliersi la vita.
Come nota il quotidiano britannico, tra i funzionari Onu e gli attivisti è scattato l’allarme per un fenomeno che viene esplicitamente collegato alle restrizioni talebane su ogni aspetto della vita quotidiana.
“L’Afghanistan è nel mezzo di una crisi di salute mentale alimentata da una crisi dei diritti delle donne”, sono le parole affidate al Guardian da Alison Davidian, rappresentante di UN Woman. “Stiamo testimoniando una fase in cui un numero crescente di donne e ragazze vede la morte come preferibile al vivere nelle attuali circostanze”.