Nel cerchio degli uomini è un film di utilità sociale. Una produzione virtuosa tra Kon-Tiki Film e RAI Documentari, con il sostegno di Film Commission Torino Piemonte e Piemonte Doc Film Fund, prodotto da Andrea Porporati, Daniele Vicari e Francesca Zanza, presentato a Roma a luglio, trasmesso da Rai Tre in prima serata e disponibile su Rai Play. Questo documentario mette di fronte agli occhi di qualsiasi spettatore tutte le fragilità, i limiti, le contraddizioni di una cultura profondamente patriarcale. La nostra cultura, quella dei salari iniqui e del tutto sproporzionati tra uomini e donne, quella del narcisismo maschile incarnato in forme diverse di violenza fisica e psicologica. Una violenza che, se prima del Femminismo era orgogliosamente ostentata dai maschi violenti nei confronti delle “loro” donne, dopo la fatica delle femministe si è trasformata in qualcosa di estremamente subdolo, manipolatorio, sempre e comunque prevaricante, quando non schiacciante, troppo spesso fino alla morte. E così, le società del Patriarcato soffrono di un dolore insopportabile che porta uomini e donne a perpetrare un tormento che asseconda la regola millenaria. E invece, ci dice questo documentario con una delicatezza disarmante, i maschi che hanno la voglia, la forza, l’umiltà di mettersi in discussione negli incontri di autocoscienza del Cerchio degli uomini, trovano davvero una possibilità riscatto, per il bene comune. Farsi del bene è un modo per far del bene alla comunità, come sempre.
Paola Sangiovanni si sottrae a qualsiasi virtuosismo registico, al fine di rendere il più incisivo possibile il disagio dei maschi violenti. Per anni ha cercato di fare questo film. Soltanto ora lo può presentare al pubblico e lasciare che venga accolto da spettatori di qualsiasi orientamento sessuale, come fosse uno specchio dove guardare tutti le nostre storture.
Le storie dei tre fondatori della prima associazione Cerchio degli uomini, con sede a Torino (dove il film è girato), si sovrappongono alle loro vite “precedenti” con fotografie e ritratti familiari; Le testimonianze di alcuni maschi che hanno scoperto in sé un’impensabile trasformazione si comprendono con ancor più efficacia guardando il lavoro delle altre associazioni sparse in tutte Italia e si delinea la possibilità di fare dei passi di umiltà nelle sedute di autocoscienza, nei seminari portati avanti tra uomini di ogni razza, provenienza, estrazione sociale e culturale; a questo si aggiungono il prezioso lavoro del Teatro dell’ Oppresso di Olivier Malcor e i disarmanti incontri con le scuole, durante i quali emerge prepotentemente quanto, nelle menti dei nostri ragazzi e ragazze, sia radicata in modo ancestrale la disparità tra i sessi. E il dolore elaborato si sofferma su immagini di repertorio accuratamente selezionate, della nostra Italia del dopoguerra, del nostro Sud, delle nostre pubblicità del Boom economico che ci gridano quanto la donna sia stata relegata a un ruolo subalterno. E il film prende strade comuni, parallele, di equilibrio e sensibilità. Sarà ancora molto difficile riuscire a instaurare relazioni tra le persone, piuttosto che tra i sessi. Vedremo ancora molto dolore, dentro e fuori, ma questo documentario ci dice che la trasformazione è possibile. Rara, rarissima, ma sarebbe (è) a portata di mano.
Ogni riferimento al cinema libero, lungimirante, colto, radicalmente femminista di un grande maestro che non si ricorda mai abbastanza come Marco Ferreri, non è puramente casuale. Si invita, pertanto, i lettori a vedere, se non tutti i film del regista, almeno Ciao Maschio, perché nel 1978 Ferreri aveva previsto una crisi inarrestabile degli uomini, dando il compito di interpretare il disastro del “maschio storico”, al quale non si è ancora trovata un’alternativa virtuosa, a due giganti come Marcello Mastroianni e Gérard Depardieu.
Perché questo film sul maschile?
Ho pensato di fare questo film molti anni fa, ma evidentemente non era il momento giusto, perché ho avuto forti difficoltà di comprensione riguardo le motivazioni profonde del film. I produttori che ascoltavano la mia proposta, sinceramente non capivano la necessità di finanziarlo: c’era in loro una sorta di stupore. Qual era la novità, quale l’interesse, perché produrre un film sulle storie di questi uomini? Non se ne capiva l’esigenza, ho dovuto sospendere l’idea, per un po’.
Il film finito oggi, nella sua ideazione di fondo, non è tanto diverso dall’impianto originario perché l’ho fortemente voluto così com’è. Prima di tutto a livello esistenziale. Ho scoperto che esistevano gruppi di uomini che si mettevano in discussione tanti anni fa, nel 2009, mentre stavo finendo il montaggio del mio film Ragazze la vita trema (sul femminismo degli anni ’70). C’erano uomini, nel nostro Paese, che si incontravano per fare una sorta di cerchi di autocoscienza: si trovavano in gruppi e condividevano le proprie esperienze personali, le proprie emozioni, anche difficoltà e fragilità, a partire da sé. Questa cosa sembra normale e scontata ora, ma allora non credo lo fosse per nulla, trattandosi di uomini e ho pensato che questo loro lavoro fosse un segnale rivoluzionario.
I maschi, non sono soliti mettere a nudo le loro esperienze profonde, condividendole con altri uomini. A noi sembra normale perché conosciamo meglio l’autocoscienza femminista, ricordiamo tutti la frase di quelle donne: “il personale è politico”. Il segno che definisco rivoluzionario è tanto più semplice quanto più si credeva fosse impossibile: denudare le emozioni, le incertezze, le bruttezze maschili, l’impulso alla sopraffazione. Questi uomini che cercavano e cercano la strada per una nuova maschilità hanno avuto la necessità di rendere reali i “segni” della loro auto consapevolezza: un linguaggio di comunicazione originale (mai cercato prima); un linguaggio anche corporeo, di vicinanza sensoriale tra i maschi. Per me una delle novità del percorso stava nel fatto che questi gruppi erano tanti, sparsi per tutta l’Italia, ma bisognava dare loro una forma di compattezza, di unità, di realtà sparsa sul territorio nazionale. Ecco, questo mi ha davvero interessato perché è da tali ragionamenti che, in quel periodo, si stava formando la rete Maschile Plurale.
Per quanto mi riguarda, la relazione tra maschile e femminile non è né scontata, né semplice. Nella mia vita di donna, non soltanto dal punto di vista sentimentale, è stata una relazione difficile e in alcuni casi dolorosa. Perché è complicato trovare un codice di relazione paritario, su un piano orizzontale… Ed ecco che tutto quello che stiamo dicendo anche qui sembra scontato… Non lo è per niente.
La relazione paritaria tra maschile e femminile richiede un vocabolario di interpretazione, perché siamo ciechi, immersi nell’unica cultura che conosciamo: quella del patriarcato (e anche questo sembra scontato, ma bisogna pur dire e tentare di risolvere questa cosa). Non abbiamo un altro sistema di valori a cui fare riferimento se non questo, non ne conosciamo un altro, è dentro di noi. Ci sono codici di comportamento, di relazione, di linguaggio, di percezione e auto percezione da modificare.
Il Femminismo ha messo in campo, chiarito, fatto emergere, problemi impensabili da pronunciare prima. Le donne femministe hanno preso sulle loro spalle un carico di responsabilità faticosissimo, ma illuminante.
Come sono nati questi incontri di autocoscienza maschile, di Torino e non solo?
Roberto, Domenico, Mario, hanno dato vita al gruppo di condivisione che poi è diventato l’associazione Cerchio degli uomini. Ho seguito in flashback il formarsi di questo preciso gruppo torinese. Ho seguito le storie personali, sino ad arrivare ai tempi della loro primissima infanzia. E quindi, oltre alle riprese dei cerchi collettivi e delle diverse attività, ho sentito la necessità di capire, e mostrare, cosa li avesse portati a fondare e a far crescere la rete. Perché proprio questi tre uomini hanno costituito gruppi attraverso i quali cercare un’alternativa alla cultura patriarcale, con lo scopo di modificare la loro natura di uomini, anche rispetto ai loro stessi modelli maschili? Chi erano i loro padri, inconsapevolmente portatori di grandi difficoltà affettive e di relazioni familiari e con il femminile faticose, quando non violente? A questi tre personaggi, poi, se ne aggiungono altri legati alle attività dell’associazione. Ho voluto eliminare qualsivoglia speculazione filosofica e ho ripreso “semplicemente” il loro tentativo di modificare la mascolinità. E ho capito che questi uomini non sono per nulla ideologici, ma si sono messi in circolo, in un posto x, e hanno messo in relazione la loro più profonda essenza di maschi. Da un semplice gesto di incontro, tutti loro hanno ampliato il percorso personale: ho provato a mostrare questa evoluzione, riprendendo anche alcuni uomini dell’associazione che organizzano laboratori sugli stereotipi di genere nelle scuole. Perché mi sembrava importante mostrare come, anche ragazzi e ragazze di 16- 17 anni abbiano introiettato stereotipi di genere, stereotipi molto radicati che conoscono e che subiscono. Non ultimo, ho voluto mostrare l’incontro con il Teatro dell’Oppresso, del quale fanno parte altri uomini ancora, che hanno età, carnagioni, storie, origini differenti e che sono organizzarti e coordinati da Olivier Malcor, tra i primi ad aver portato il Teatro dell’Oppresso in Italia.
Il gruppo torinese che seguo in particolare, è stato il primo a mettere a disposizione un numero telefonico presso il quale rivolgersi per gli uomini che agiscono violenza. La cosa poi si è ingrandita, dando vita a un Centro d’ascolto per uomini che agiscono violenza, in collaborazione con una Asl cittadina.
In tutte le loro attività, ciò che più mi interessa è il rendere chiaro che il problema della violenza è un problema culturale e su questo occorre lavorare in più direzioni. È implicito che esistono casi estremi di grossi traumi o di malattia mentale, ma nella maggior parte dei casi della violenza maschile, fisica o psicologica, si tratta di una questione essenzialmente culturale.
Questo film, dunque, crea un racconto su diversi livelli di una donna che “si sottrae”: mi sembra, ma posso sbagliare, che la sua autorialità è chiara in ogni immagine attraverso la struttura che ci ha appena raccontato. Ma in generale, il suo film ha la grande dote di far prevalere il messaggio che vuole trasmettere piuttosto che l’aspetto personale, narcisistico vorrei dire, della regista. È da questa sottrazione che il film esprime tutta la sua potenza catartica di racconto per immagini sulla fragilità maschile. Grazie a questo escamotage, il suo Nel cerchio degli uomini riesce a diventare un film di “educazione civica” direi, ed è per questo, mi pare, che la Rai (non sempre così attenta a praticare il suo ruolo primario di servizio pubblico) ha saggiamente deciso di trasmetterlo in prima serata. Non soltanto in quanto coproduttore, ma per il valore sociale che il film ha. Ma soprattutto, grazie a questa forma di “sottrazione” emerge tutta la forza dirompente di messa a nudo dei maschi, cosa mai osservata, in questo nostro tempo, con tanta evidenza.
Sono molto interessata a quello che dice, perché un film non si conclude mai con la visione, ma dalla visione emerge tutto un mondo di analisi, pareri, ragionamenti che io per prima non avrei saputo fare. I miei film hanno una comune caratteristica di “complessità”. È per questo che ci metto tanto a realizzarli: anni di pazienza e ragionamento. Per quanto mi riguarda, questo film in particolare l’ho costruito con un impianto cinematografico. Lo spiazzamento che ne consegue, e di cui parla, non è stata deciso a tavolino… Certo, i diversi piani di linguaggio (confessioni maschili, fotografie, repertorio, laboratori teatrali e scolastici) sono stati decisi in fase di sviluppo, ma l’effetto che fa, il susseguirsi di parole e ragionamenti mai ascoltati in modo così chiaro – che per altro si moltiplicano e, quindi, moltiplicano la sensazione dello “spiazzamento”, come lo definisce lei – davvero non era calcolato. Fa riflettere anche me, perché forse era tra le intenzioni del film, ma non avevo considerato che fosse stato raggiunto come risultato.
Come ha scelto gli uomini che si sono raccontati?
Dopo aver incontrato diversi maschi di gruppi analoghi sparsi per l’Italia, gli uomini dell’associazione Cerchio degli uomini di Torino mi hanno interessato dal punto di vista narrativo per la loro vocazione al fare, per le azioni e attività che mettono in campo, quindi ho sentito la possibilità di raccontare delle storie personali e collettive. È stato un lungo lavoro di costruzione della relazione, ci sono stati anche momenti di incomprensione e diffidenza, ho anche sentito LA diffidenza nei miei confronti in quanto donna.
Ha subito pressioni dai produttori?
R.: Dai produttori non ho avuto indicazioni particolari, né pressioni. Sono stati importanti alcuni suggerimenti di Fabio Mancini, il produttore creativo di Rai Documentari. Devo dire che lui ha pienamente compreso il film ed è stato prezioso dal punto di vista artistico. La decisione non soltanto di produrre, ma anche di mandare in onda in prima serata i film documentari di Rai Documentari è una scelta importante.
Cosa ha scoperto di questi uomini?
Come autrice, il loro sguardo radicale e la fiducia nelle potenzialità trasformative dell’essere maschi, mi ha molto incuriosito. Volevo raccontare una trasformazione. Raccontare in modo positivo la possibilità, l’esperienza, la tangibile capacità di miglioramento, anche se è un passaggio molto difficile, perché siamo ingabbiati in stereotipi, modalità di comportamento, meccanismi che fanno soffrire, che ci fanno soffrire, a livelli differenti, in ogni parte del mondo, tanto pervasivi da diventare invisibili. È una ricerca e una trasformazione in fieri.
A me piace fare domande, ma anche stare in silenzio e osservare i comportamenti altrui, senza far prevalere la mia voce. Forse è per questa mia indole che lei parla di “sottrazione”, e a ragione, credo. E tanta maggiore è stata la sottrazione di me, quanto più ho compreso che se gli uomini fossero davvero capaci di mettere in discussione, tutti, potrebbero realizzare una rivoluzione epocale enorme. Perché i maschi che si vedono nel film hanno fatto questo sforzo gigantesco di messa in crisi della cultura patriarcale e sono riusciti, nonostante le difficoltà, ad avere un altro sguardo, un altro linguaggio, un altro rapporto con loro stessi e con il femminile. Attraverso questo film, vorrei si capisse che non soltanto c’è la possibilità di realizzare una trasformazione e una crescita, ma che se non viene agita dai maschi continueremo a soffrire tutti, uomini e donne. Il divario culturale tra generi e alla base di una infinita quantità e qualità di sofferenze, al livello globale.
In questo film la violenza maschile, al di là di quella più eclatante, fisica, emerge in tutte le sue forme, in modo lampante, evidente. Perché affiora un rapporto uomo-donna che, pur comunicando una sensazione di grande fiducia e positività, fa risuonare prepotente una domanda: quanti sono davvero, nei fatti, gli uomini che comprendono questa possibilità e che fanno uno sforzo di umiltà e rinascita?
Alcuni degli uomini dell’associazione, tra le altre attività, lavorano anche come operatori nel “Centro di ascolto del disagio maschile e prevenzione della violenza alle donne”, in modo particolare Roberto e Domenico, che si confrontano sulla difficoltà di questo lavoro e sulla difficoltà nel rapportarsi con gli utenti del “Centro”, in alcuni casi con storie molto pesanti di reati di violenza contro le donne. Nel film si racconta anche la storia di un uomo, Michele, che ha fatto nel “Centro” un percorso durato tre anni, e della cui trasformazione sono stata testimone nel corso del tempo.
Il repertorio, inserito in alcuni specifici contesti della narrazione, è scelto in modo molto oculato, misurato, direi. Il che è un altro pregio, a mio avviso. Ci racconta in base a quali criteri lo ha selezionato?
Ci sono nel film più livelli di uso dei materiali di repertorio. Uno è una sorta di contrappunto ritmico, che ritorna in brevi tratti lungo tutto il film e che al contempo crea anche un’eco storica, ed è costituito dalle immagini in superotto di ritratti di vite familiari, molte girate all’interno delle mura domestiche. Provengono dall’ “Archivio Superottimisti” di Torino, che raccoglie film di famiglia piemontesi. Sempre da questo fondo provengono alcune sequenze cittadine o di contesti naturali che sono parte del racconto più biografico e intimo dei tre protagonisti, Roberto, Mario e Domenico. Questa parte è costruita anche con alcune loro foto personali dell’infanzia e della giovinezza e dalle immagini di manifestazioni femministe che provengono dall’ “Archivio audiovisivo del movimento operaio e democratico” e che rappresentano il livello più propriamente storico del repertorio.
Mi ha molto interessato, e credo sia significativo, il fatto che due tra i tre protagonisti siano emigrati dal sud verso Torino, negli anni Cinquanta, in condizioni di partenza poverissime. Questi due uomini, voglio dire, sono stati costretti a fare un doppio salto di individuazione di quello che desideravano essere, per trovare una strada che li corrispondesse profondamente, qualcosa che i modelli di riferimento, antichi e attuali, non potevano in alcun modo fornirgli.
Lei ha incontrato uomini violenti nella sua vita?
Personalmente, no. Ma ho sempre percepito una società maschile violenta che mi fa molto soffrire: un’intera cultura mi suggerisce, in modi più o meno violenti, che devo stare al posto mio. Ecco, questa è una prevaricazione enorme, a mio avviso. Ed è una precisa violenza “di cittadinanza”, tengo a precisare. I micro cambiamenti che le donne portano avanti determinano dei piccoli momenti di consapevolezza, ma gli elementi di fondo, nelle società in cui viviamo, sono sempre a scapito delle donne. E non è una denuncia la mia, ma una constatazione abbastanza banale e sotto gli occhi di chiunque.
I codici di interpretazione della realtà, credo, devono essere sempre indagati e penso sia necessario fornirsi di strumenti interpretativi per tentare la strada della trasformazione nel momento in cui esse possono avvenire. Spero che i cambiamenti formali, linguistici, forse esteriori che stiamo vivendo, possano essere foriere di mutamenti più sostanziali per il presente e il futuro.
Per concludere, vorrei dire che le due anteprime fatte nei cinema e la trasmissione del film su Rai Tre in prima serata, mi hanno dato la possibilità di comprendere che, al momento, il film è stato recepito molto bene. Vorrei che lo si usasse, lo si utilizzasse, come dispositivo di dibattito. Perché coinvolge qualsiasi problema che viviamo: la nostra società è così radicalmente patriarcale che, in qualsiasi atto di violenza, la donna è coinvolta.