Moretti, Negri e la bellezza di essere minoranza

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È estate, e mi torna in mente il Nanni Moretti che gira in Vespa per le vie di una Roma semi-deserta, come oggi purtroppo non si vede più nemmeno ad agosto, redigendo le pagine del suo diario, destinato a diventare uno dei film iconici di un’epoca. Mi tornano in mente quelle scene che sembrano uscite da un’altra era geologica, con un susseguirsi di case e strade dal sapore pasoliniano, fino a comporre l’immaginario di una città sospesa, nel contesto di un Paese che stava mutando pelle e, purtroppo, cambiando in peggio. Mi torna in mente quel ’93, quando Moretti aveva quarant’anni e si sentiva in piena forma, mentre oggi ne compie settanta e anche a lui non rimane che la nostalgia del tempo che fu, magnificamente ritratta nell’ultimo film, “Il sol dell’avvenire”, in cui protagonista è la violenza, declinata in tutte le sue sfaccettature. Ci domandiamo, tuttavia, con una punta di malizia se il Moretti di oggi sottoscriverebbe ancora la frase-mito del Moretti di allora, quella riflessione relativa all’essere d’accordo con la minoranza, quella nobilissima rivendicazione della battaglia ideale, della lotta in nome delle proprie convinzioni, costi quel che costi, quel manifesto politico che avrebbe caratterizzato il regista romano nel decennio successivo. Non ci siamo dimenticati, infatti, del Moretti che circonda la RAI per protestare, con il movimento dei Girotondi, contro le politiche berlusconiane. Non ci siamo dimenticati nemmeno di quel sabato di settembre in piazza San Giovanni, di quell’invito a non perderci di vista che, purtroppo, non è stato raccolto, di quell’esortazione a batterci insieme, con passione e coraggio, che è stata ignorata da quasi tutti negli ultimi vent’anni.

Nanni Moretti ha spesso costituito la coscienza critica e civica della sinistra: nelle sue opere, certo, ma anche quando ci ha messo la faccia e in piazza Navona ha gridato ai suoi dirigenti che con loro non avremmo vinto mai. Profetico, proprio come quando in “Ecce Bombo” ritraeva lo scoramento della generazione in bilico fra il tutto della politica degli anni Settanta e il nulla della politica che sarebbe dilagato in seguito. Quel capolavoro uscì l’8 marzo del ’78, otto giorni prima del sequestro Moro, spartiacque di un’epoca e punto di non ritorno per chi allora aveva vent’anni. Viene, poi, in mente il Moretti di “Palombella rossa”: un militante ormai maturo che si batte per la cura delle parole, per evitare ogni forma di volgarità, per scongiurare la decadenza dei costumi, in una sinistra che si era già stancata di essere tale e non aveva nessuna intenzione, nel complesso, di agire con generosità mettendo in discussione se stessa, dato che aveva ben compreso quanto fosse più semplice assecondare lo spirito del tempo e, sostanzialmente, dissolversi. “Caro diario” è l’ultimo Moretti speranzoso, in un altro passaggio cruciale della nostra vita pubblica, nel biennio delle stragi e dell’implosione della Prima Repubblica. Non a caso, in quella Roma soffocata dalla calura agostana, si coglie il senso di attesa e d’illusione di un popolo che si riteneva pronto per andare al governo e invece si sarebbe dovuto scontrare, di lì a poco, con l’ascesa del berlusconismo. “Aprile” di tutti i film di Moretti è il più amaro e, al tempo stesso, il più veritiero. È il Moretti del disincanto, della disillusione, della rabbia, il Moretti che guarda in faccia il D’Alema della Bicamerale e gli chiede di dire qualcosa di sinistra, il Moretti che sferza i dirigenti dell FGCI della sua gioventù sostenendo che fossero cresciuti, a loro volta, a stretto contatto con la degenerazione etica, culturale e televisiva degli anni del riflusso, seppellendo con gioia Berlinguer e cominciando a desiderare ardentemente di essere come tutti. Il Moretti contemporaneo, invece, è intimista, profondo, artefice di ritratti familiari struggenti e di analisi sociologiche di altissimo livello. Diciamo che non ci sembra più disposto a dare battaglia, se non saltuariamente. Per questo, ci domandiamo se condivida ancora le riflessioni del ’93 sulla bellezza di essere in minoranza, in questa stagione che ha trasformato persino i rivoluzionari in santini e reso gli incendiari di un tempo dei perfetti apostoli del sistema. Non abbiamo risposte in tal senso. Sappiamo solo che a Nanni, qualunque cosa dica e faccia, vorremo sempre bene, colmi di gratitudine per ciò che ha rappresentato in un periodo in cui a portare avanti determinate battaglie era per lo più un gruppo di intellettuali e giornalisti, nel silenzio assordante di buona parte della politica, a cominciare ahinoi dal versante progressista.

Uno che non si è mai arreso e mai si arrenderà, dal canto suo, è Toni Negri, splendido e indomito novantenne. Discusso, controverso, considerato il re dei “cattivi maestri”, ispiratore di una generazione nel bene e nel male, finissimo analista delle storture planetarie e, fra i contestatori, uno dei pochi a non essersi lasciato addomesticare e ad aver pagato per questo un prezzo altissimo, non c’è dubbio che sia stato uno dei protagonisti del Novecento. A cavallo fra i due millenni, è stato fra i primi, insieme a Michael Hardt, a comprendere gli aspetti più deteriori della globalizzazione capitalista, denunciandone la pericolosità in opere come “Impero” e “Moltitudine” e analizzando il movimento alterglobalista non senza spirito critico ma con indubbia lucidità. Ha saputo apprezzare, difatti, anche gli elementi positivi della globalizzazione, mantenendo la barra dritta sul doveroso rifiuto dello strapotere di un’estrema minoranza nei confronti del novantanove per cento della popolazione mondiale. Ecco, se c’è un comune denominatore fra Nanni Moretti e Toni Negri è proprio il loro essersi interrogati, in tempi e modalità diversissime, sul ruolo della minoranza, sulla necessità di tutelarla e valorizzarla e sul bisogno di porre al potere e al pensiero dominante l’interrogativo per lui più atroce: e se i sognatori, gli utopisti, i folli, i sovversivi, coloro che sono destinati a perdere sempre e per sempre, almeno in parte, avessero ragione? Questo dubbio, da solo, basta a far crollare il castello di carte su cui si regge una struttura ormai in piena decadenza. Pertanto, nel dibattito pubblico del nostro democraticissimo Paese, non può e non deve avere spazio.


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