Michela Murgia, scomparsa ieri all’età di cinquantuno anni, era una magnifica incompresa. Una scrittrice dolce e aspra al tempo stesso, un’intellettuale impegnata e sempre pronta a portare avanti battaglie politiche e civili, una rompiscatole che sapeva di essere tale e ne andava fiera, una che amava remare in direzione ostinata e contraria e non aveva paura di sfidare i dogmi della società contemporanea. Non sempre ho condiviso le sue idee e la sua visione del mondo, ma questo fa parte della bellezza del confronto. Le riconosco, tuttavia, un’onestà intellettuale e una capacità di scrittura fuori dal comune, oltre che una cura particolare nello scegliere e nell’usare le parole. Non erano questi, però, i motivi principali per volerle bene. Michela andava sostenuta, anche quando si era in disaccordo, per la passione con la quale si batteva e per il coraggio con cui difendeva il suo punto di vista, anche quando si trovava non in minoranza ma pressoché da sola a portarlo avanti. Non si preoccupava minimamente di non essere capita. Lei gettava il seme e lo innaffiava, proprio come l’uomo che piantava gli alberi nel capolavoro di Jean Giono. Non le importava di veder crescere il suo albero: ciò che contava per lei era dare il proprio contributo, in attesa di giorni migliori e, soprattutto, in contrasto con il pensiero unico dominante che riteneva, a ragione, insopportabile. A lei dobbiamo tante battaglie femministe, condotte con una determinazione fuori dal comune. A lei dobbiamo l’affermazione di un punto di vista radicalmente alternativo sul tema dei migranti, in una stagione nella quale, anche sul fronte progressista, andavano per la maggiore gli sceriffi. A lei dobbiamo, più che mai, il contrasto di ogni rigurgito fascista e la costante denuncia delle degenerazioni cui è andata incontro la nostra società negli ultimi vent’anni. Non a caso, qualche mese fa, quando aveva già rilasciato la straziante intervista ad Aldo Cazzullo in cui annunciava che il cancro di cui era malata le concedeva solo pochi mesi di vita, su Instagram pubblicò una storia in cui identificava l’inizio dell’abisso nel quale siamo immersi con i fatti di Genova e i drammi a ripetizione dell’estate 2001, vero spartiacque per la sua generazione e punto di non ritorno per la comunità nel suo insieme. In quell’ultima testimonianza ho percepito il senso del dono, la gratuità con cui regalava al prossimo la sua saggezza e la forza d’animo con cui si sforzava di comprendere e raccontare il contesto.
Michela, infatti, era una scrittrice di denuncia, una che non accettava compromessi, tanto meno al ribasso, e non aveva timore di scontrarsi con i poteri forti e con la barbarie dilagante sul web e nelle viscere di un Paese incattivito. Ha subito, negli anni, vere e proprie campagne d’odio ed è sempre e comunque andata avanti. Non useremo qui termini militaristi: in primo luogo perché non piacciono neanche a noi ma, soprattutto, perché lei li detestava. Per lei, al contrario, la vita era una sfida con la quale cimentarsi ogni giorno, pure a costo di uscire sempre sconfitta, un’avventura nella quale non ci si poteva tirare indietro e un sogno al quale non era disposta a rinunciare. Anche per questo, prima di andarsene, ha deciso di sposarsi e di acquistare un’ampia abitazione per la sua famiglia queer, testimoniando con fermezza il suo rifiuto di ogni tabù e il suo amore per tutto ciò che la rendeva felice.
Aveva una sua etica, un suo modo di concepire i rapporti umani, una sua profonda dignità e un fastidio indescrivibile per l’ordine costituito. Credeva, difatti, che il mondo andasse sempre e comunque avanti, che la società si evolvesse e che fosse assurdo scegliere di restare indietro.
Politicamente parlando, perché questa dimensione è essenziale per comprendere il personaggio, al pari di Saviano, non le mandava a dire. Ha contrastato con analisi lucidissime l’ascesa di questa destra e sostenuto il percorso di Elly Schlein, verso cui nutriva stima e amicizia e per la quale ha costituito sempre una fonte d’ispirazione.
Era sincera in tutto, forse anche troppo, il che la rendeva meravigliosa e incredibilmente fragile. Ora che non c’è più, rileggendola e riascoltandola, comprenderemo forse la sua grandezza. Perché Michela era folle e consapevole di esserlo.
D’ora in poi, ci osserverà e ci sferzerà da lassù. Altre parole non servono, ma il vuoto in questo momento grida.
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