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In Turchia la caccia ai giornalisti non finisce mai, il calvario di Barış Pehlivan

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È un calvario perpetuo la persecuzione verso il giornalista e scrittore turco Barış Pehlivan, incarcerato per la quinta volta nella sua carriera giornalistica e ancora una volta per le sue opinioni, per aver scritto un articolo col quale avrebbe rivelato “segreti di stato”. Pehlivan funge da capro espiatorio e da monito contro chiunque osi cercare luce di conoscenza e di verità in ogni oscuro ambito di attività di quella rete clandestina di funzionari della sicurezza, burocrati e criminalità organizzata che nella storia repubblicana turca ha operato al di fuori dei canali ufficiali, impegnata anche in attività illecite per proteggere gli interessi del regime e che ha rappresentato un mezzo per sostenere politiche di sicurezza intransigenti, spesso antidemocratiche.

Il quarantenne Barış Pehlivan torna dunque in carcere. È tra i giornalisti indipendenti più odiati da Erdoğan. Il 15 agosto ha fatto ritorno in prigione per aver tentato di far luce su una questione non gradita ai servizi segreti. Pehlivan è solo uno dei numerosi giornalisti in Turchia vittime della deriva autoritaria nei confronti di chi si opponga al presidente turco e al suo Partito della giustizia e dello sviluppo (Akp). In Turchia sono numerosi i giornalisti scappati dal paese o che hanno preferito emigrare per poter svolgere liberamente la loro attività di informazione. Il pericolo per i dissidenti turchi si annida ovunque, anche nel cuore dell’Europa come nel caso di Erk Acarer, giornalista turco arrivato nella capitale della Germania nell’aprile del 2017, grazie al sostegno di Reporters sans frontières, perché in Turchia non si sentiva più al sicuro e che fu aggredito brutalmente nel cortile della sua abitazione a Berlino.

E nel caso di Can Dündar, direttore dello storico quotidiano di opposizione Cumhuriyet, processato in contumacia e condannato a 28 anni e 6 mesi di carcere con l’accusa di spionaggio politico e militare. Dündar è in esilio volontario in Germania, perseguitato per un suo reportage su presunti traffici di armi in Siria ad opera dei servizi segreti turchi del MİT. Il giornalista si era rifugiato in Germania nel 2016 poco dopo essere sfuggito a un attentato mentre stava uscendo da un tribunale. Barış Pehlivan ha condotto numerose inchieste su argomenti sensibili, legati a questioni politiche, a corruzione e a violazioni dei diritti umaniNel 2007 passò alla direzione del giornale online indipendente OdaTv, fondato dal giornalista investigativo Soner Yalçın. In quello stesso anno ricevette la sua prima denuncia per aver “attentato all’ordine pubblico”. Fu messo sotto processo per aver prodotto un documentario di oltre 200 puntate dedicato ai terribili fatti avvenuti nella prigione di Diyarbakır il giorno del famigerato golpe del 12 settembre 1980, il più sanguinoso della storia turca. Nella città, cuore del Kurdistan di Turchia, nel sudest dell’Anatolia, in quel giorno del golpe, gruppi militanti di sinistra e di destra si scontrarono. L’ordine fu velocemente ripristinato e furono eseguite oltre cinquanta condanne a morte per impiccagione: tutti intellettuali, dissidenti e giovani studenti. Gli arrestati, per gran parte della sinistra socialista e comunista, furono oltre cinquecentomila e le loro organizzazioni furono messe al bando. Le Forze armate turche tennero nelle loro mani il potere fino al 1983, anno in cui furono indette le elezioni politiche.

Il vero calvario di Pehlivan iniziò il 14 febbraio del 2011 quando la polizia fece irruzione nella sua casa e nella redazione di OdaTv, e lui e altri giornalisti furono arrestati con l’accusa di far parte di Ergenekon, un’organizzazione segreta vicina all’apparato militare kemalista e ultranazionalista, accusata di cospirazione contro il governo Erdoğan.

Pehlivan venne arrestato e rinchiuso nella cosiddetta “prigione dei giornalisti”, quella di Silivri, a Istanbul, così definita per l’elevato numero di giornalisti e intellettuali che vi sono rinchiusi. Fu portato davanti a un giudice solo dopo nove mesi di reclusione e solo allora poté conoscere il capo di imputazione. Nel settembre 2012 venne rilasciato in attesa del processo dopo che i giudici avevano appurato che contro il giornalista erano state mosse accuse infondate basate su false prove introdotte nel suo computer attraverso un virus. Fu così che il 12 aprile del 2017, Pehlivan e altri 13 imputati del caso OdaTv vennero assolti, ma nel marzo del 2020, la polizia turca lo arrestò di nuovo. In quel periodo egli era direttore del sito web di notizie indipendente OdaTv. L’accusa fu formulata solo nel settembre di quell’anno. Secondo gli inquirenti il giornalista dissidente aveva violato la legge sull’intelligence nazionale e aveva “rivelato segreti di stato”. In realtà la sua vera colpa era quella di aver reso pubblica la morte di un ufficiale dell’intelligence turca in Libia e di averne rivelato il suo nome. È stato condannato a quattro anni di carcere, ma dopo sei mesi di prigionia è stato rilasciato temporaneamente in regime di libertà vigilata grazie al provvedimento di amnistia varato dal governo per ragioni di sicurezza legate al Covid-19, quando allora circa centomila prigionieri furono scarcerati, anche se quasi tutti i detenuti politici rimasero in carcere. Furono invece amnistiati per lo più individui condannati per atti di criminalità comune, per violenza sulle donne, per narcotraffico o per omicidio, molti dei quali, dopo il rilascio, reiterarono la loro condotta criminale o scapparono dal paese.

Solo un numero esiguo di detenuti politici ottenne la scarcerazione, tra questi Barış Pehlivan, il quale tornò subito alla sua attività di giornalista d’inchiesta e, assieme al suo collega Barış Terkoğlu, pubblicò “SS”, un libro dedicato all’ex ministro dell’Interno Süleyman Soylu. Nel loro libro Pehlivan e Terkoğlu documentano presunte attività illegali dell’ex ministro che sarebbe stato coinvolto in finanziamenti illeciti assieme a organizzazioni criminali. I legali dei due giornalisti sostengono che Soylu, allora alla guida degli Interni, abbia impedito al giornalista di usufruire di una clausola, introdotta il 15 luglio 2022, che permette lo sconto della pena e l’ottenimento della libertà condizionata in alternativa al carcere, clausola, questa, che ha consentito a centomila persone di non fare più ritorno in prigione. Invece per Barış Pehlivan la concessione della “libertà condizionata” prevista dalla legge turca non viene applicata. “Questo è il prezzo che devo pagare per aver scritto questo libro”, ha dichiarato Pehlivan. Nella classifica sulla libertà di stampa del 2023, redatta da Reporters sans frontières (RSF), la Turchia è inserita nella fascia nera dei paesi che reprimono la libertà di stampa: è al 165º posto su un totale di 180 paesi. Erol Önderoğlu, rappresentante di Reporters sans frontières a Istanbul, ha chiesto di muovere un’azione legale contro le pratiche denigratorie e criminalizzanti nei confronti degli operatori dei media.

Recentemente, oltre alla violazione dei diritti alla libertà di stampa e di espressione, stiamo anche assistendo a un vergognoso aumento del trattamento violento, offensivo e denigratorio contro i membri della stampa non graditi al governo“, ha detto recentemente Önderoğlu ai media.

Tutte le organizzazioni internazionali che monitorano la libertà di stampa nel mondo classificano la Turchia tra i paesi con il più alto numero di giornalisti in prigione al mondo, il quarto dopo Iran, Cina e Myanmar, secondo un rapporto pubblicato a dicembre dal Comitato per la protezione dei giornalisti con sede a New York.

Nella foto Barış Pehlivan durante una conferenza stampa davanti al tribunale di Istanbul 


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