“Le otto montagne” di Felix Van Groeningen e Charlotte Vandermeersch, prod.Ita-Bel-Fra, 2022. Con Luca Marinelli, Alessandro Borghi, Filippo Timi.
Tratto dal romanzo di Paolo Cognetti, vincitore del Premio Strega 2017, “Le otto montagne” è uno di quei film che può ingenerare equivoci ad iosa. Certamente, soffre la matrice letteraria (vedi i raccordi con voice over, sempre deleteri, e la necessità di dare un ordine logico e cronologico come da testo), ma, fortunatamente, per oltre un’ora e mezza riesce a liberarsene, facendosi cinema puro, con tempi, sguardi e immagini che trionfano su tutto. E’ anche un film sull’amicizia, come strombazzato da trailer, spot, e spoiler vari, ma è, soprattutto, una visione estrema sull’incomunicabilità, sulla ricerca d’identità e sulla inevitabilità della mutazione della realtà e degli sguardi che su di essa posiamo. Pietro (Luca Marinelli) è un borghese di città, Torino, Bruno (Alessandro Borghi) un proletario della montagna, un montanaro della Val d’Aosta. I loro destini sono segnati. Il primo sarà condannato all’infelicità di chi deve arrivare ad ogni costo nella vita, il secondo sarà relegato nella natura, che lo segnerà, in positivo ed in negativo. Il film non si divide al cinquanta per cento. E’ la figura di Pietro (sembra di capire, alter ego dello stesso autore del romanzo, Paolo Cognetti) a dare un senso a tutta la narrazione. Il suo ritorno in montagna, la sua partenza per il Nepal, sono tutte tappe della ricerca di una identità perduta e di un padre solo in apparenza presente, e ritrovato alla fine nel gioco inevitabile della memoria. E a rimarcare il suo disagio borghese (riesce facile trovarci tracce di Bellocchio ed Antonioni) è efficace il parallelismo che i due autori mettono in campo tra questa vita e quella di Bruno, il montanaro, anch’egli vissuto in una famiglia penalizzata e penalizzante, destinato a vivere “felicemente” in montagna ma destinato a chiudere la propria esistenza drammaticamente perchè tradito proprio, simbolicamente, dalla “sua” natura. Una storia che gira a vuoto, e che per questo racconta tutto del senso inafferabile della vita, dei suoi incroci tortuosi ed impossibili, a cui nemmeno il sentimento amoroso o dell’amicizia può porre un argine. Il borghese Pietro, in crisi esistenziale, dopo aver beneficiato degli incoraggiamenti di Bruno non potrà ricambiare l’aiuto ricevuto perchè la natura per chi vive nella montagna e di montagna non ha niente di poetico (come dice lo stesso Bruno a Pietro), ma è fatta di cose e di lavoro. La sua bellezza è una invenzione della borghesia. Gli sguardi non sono unici, sono tanti. Per Bruno il fallimento della sua piccola impresa bovina significherà la rovina, l’infelicità sua e della sua famiglia, la morte. Problematiche borghesi, paradossalmente, cui riesce a sfuggire, invece, Pietro, aduso all’incertezza, impegnato, fra mille lavori urbani, a dare un senso alla sua esistenza in Nepal. Il suo sguardo finale verso un mondo da costruire e la ripresa dall’alto di questo stesso mondo antico proiettato verso un incerto futuro diventano simboli dell’esistenza stessa di ognuno di noi, persi nell’irresolutezza assoluta della nostra realtà, come pastori erranti dell’Asia senza alcuna felicità.