Spero di non essere equivocato dicendo che il conferimento a Papa Francesco del Premio “E’ giornalismo” è importante perché grave. Importante perché chi ha preso questa decisione, attribuire a una guida religiosa il premio “E’ giornalismo” quando è evidente che lui non è un giornalista, lo ha fatto -con grande visione e coraggio- perché ha colto che qualcosa di grave sta accadendo: il giornalismo è scosso nella sua essenza da un sistema che non ci consente più di capire cosa sia informazione da cosa sia disinformazione. E’ vero quello che leggo? E’ falso? L’epoca che doveva liberarci dalla necessità della mediazione giornalistica perché con il web, con internet, ci dava accesso diretto alle fonti, sta diventando l’epoca in cui senza la mediazione non sappiamo più a cosa abbiamo accesso. Ogni complottismo ha così uno spazio enorme di accesso a noi, alla nostra mente. Con tutto questo Papa Francesco ha molto a che fare, perché è l’unico tra tutti i leader globali che non ha chiesto di raccontare la sua verità, ma la realtà. L’impegnò di Papa Francesco non è stato per un giornalismo schierato con lui, ma con la realtà: “la realtà è superiore all’idea”. Questa suo motto fissato dai tempi dell’esortazione apostolica “Evangelii Gaudium”, è la semplice verità che fonda l’informazione. Che non può piegarsi alle rappresentazioni della realtà fondata su visioni ideologiche, ma sul primato del reale. Dare voce a chi non ha voce è raccontare la realtà, non togliere spazio a chi già ha voce, ma allargare il novero di chi la ha. Questi dieci anni di Papa Francesco sono stati spesi sulla frontiera della lotta alle fake news, alle disinformazioni, ai complottismi. Questo può essere fatto non lottando contro le nuove forme di comunicazione, ma usandole per portare al loro interno la qualità dell’ informare. Dunque per lui serve “cordialità” verso gli altri, non rancore: “ Comunicare cordialmente vuol dire che ci legge o ci ascolta viene portato a cogliere la nostra partecipazione alle gioie e alle paure, alle gioie e alle paure, alle speranza e alle sofferenze delle donne e degli uomini del nostro tempo. Chi parla così vuole bene all’altro perché lo ha cuore e ne custodisce la libertà, senza violarla”. Chi ha letto i documenti del Concilio Vaticano II sa che queste parole echeggiano quelle iniziali di un importantissimo documento conciliare Gaudium et Spes, che comincia così: “Le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d’oggi, dei poveri soprattutto e di tutti coloro che soffrono, sono pure le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce dei discepoli di Cristo, e nulla Vi è di genuinamente umano che non trovi eco nel loro cuore”. Ma nell’ impiegarle per un messaggio che vuole rivolgere a tutti coloro che comunicano, Francesco ha fatto ricorso non alla categoria “discepoli di Cristo”, ma a quella di chi ha “cordialità”. Ecco, a me sembra che la cordialità possa abbattere i muri ideologici: non la mia ideologia o interpretazione del mondo, ma la mia cordialità verso gli uomini può unirci nell’impegno a raccontare senza violare, alterare, trasformando le piattaforme vecchie e nuove in luoghi di comprensione (difficile, sofferta, ma autentica). Questo “è giornalismo”, credo, per chi crede e chi non crede, per chi crede in un modo e chi un altro. E per questo a mio avviso il premio è stato un atto importante. E’ per questo credo che il primo plauso vada a chi ha conferito il premio, più che a chi lo ha ricevuto.