“Aspetta, aspetta solo un attimo. Di un po’, siamo come sorelle, vero? Perche ́ ‘come’? Siamo sorelle. Il viso di Fatiha si scurisce, la luce nello sguardo si spegne. Non proprio. Be’, non nella realtà.” La storia di un’amicizia al femminile si scontra con un Paese permeato da differenze e lotta di classe, in bilico tra tradizione e modernità. Un romanzo di grande impatto che offre un interessante insight sulla società marocchina di oggi.
Kenza e Fatiha hanno 11 e 13 anni. Giocano nella grande villa di Casablanca, si sdraiano sull’erba cercando di acchiappare le farfalle. Di notte dormono insieme, mano nella mano, perché Kenza, dopo aver perso i genitori in un incidente, ha paura del buio. Sono come sorelle. Crescono condividendo sogni e paure, ansie e progetti.
Eppure il mondo esterno le divide: la prima è la nipote di uno degli uomini più potenti del Marocco, mentre la seconda è solo la figlia della domestica Milouda.
“Mentre sta per mettere in moto, Ali (l’autista – ndr) si gira verso Milouda: Posso accompagnare anche tua figlia a scuola, ci metto cinque minuti. Come ogni mattina, lei replica, con le mani ancora sporche di pasta di pane: «Ma no, meglio che vada a piedi. Sono solo venti minuti. Alla sua età, mica avevo l’autista, io. Le bambine non fanno caso a loro, troppo impegnate a farsi le linguacce o a disegnare sul vetro. Attraverso il finestrino dell’auto, Kenza vede Fatiha che si allontana, che diventa una sagoma fluttuante nel suo lungo grembiule bianco. Prima della curva, scorge altre due sagome vicino a Fatiha. “Sono due amiche mie, Mbarka e Rkia”, le ha rivelato un giorno, in dialetto arabo”.
Ma con il passar degli anni, con l’arrivo dell’adolescenza, le differenze legate al censo iniziano a farsi sentire e a marcare sempre di più il loro destino. A partire da quelle linguistiche: Kenza parla il francese, Fatiha il dialetto arabo. E’ così che Kenza verrà mandata ben presto a studiare a Parigi – quella città meravigliosa che ha conosciuto attraverso i racconti della nonna che amava ascoltare le canzoni di Charles Aznavour – mentre Fatiha, dal canto suo, che sognava di diventare medico, si ritroverà a fare l’infermiera presso l’ospedale pubblico di Casablanca, condividendo un sudicio appartamento con la coinquilina Youssra.
Ma mentre Fatiha accetta il suo destino in un Marocco traboccante di tradizioni secolari, impegnata a rispettare le regole del mese sacro del Ramadan: digiuno dall’alba al tramonto, divieto di utilizzo del dentifricio, del deodorante, del fondotinta…, Kenza, al contrario, rifugge da sempre quel Paese così soffocante, ne rifiuta la tradizione, a partire proprio dal digiuno. Eppure, Kenza e Fatiha, sebbene oramai distanti per estrazione sociale, sono ancora accomunate da una cosa: il colore del passaporto, verde.
“Da piccola, quando le chiedevano quale fosse il suo colore preferito, rispondeva sempre verde. Ora, però, lo detesta, soprattutto negli aeroporti quando, al controllo di frontiera, bisogna individuare la propria fila. A destra, i passaporti francesi ed europei in generale. A sinistra, il resto del mondo. A destra, bordeaux. A sinistra, verde. A destra, la libertà di andare praticamente dove vuoi. Il suo sogno”.
Ed è proprio a causa delle sue origini e del colore del documento che dopo 4 anni trascorsi a Parigi da studentessa, a Kenza viene negato il rinnovo del visto, costringendola a tornare a casa, e a lasciare l’uomo che ama “E io sarò stupida, sicuramente, ma non lo sposerò mai per avere quelle carte”.
Per Kenza, il ritorno in Marocco segnerà un’enorme sconfitta. Proprio il Paese che ama, la Francia, l’ha cacciata via, sbattendole in faccia la sua diversità: l’essere una donna araba.
Purtuttavia, nonostante siano ormai pedine di due universi paralleli, ciascuno richiuso su sè stesso, nessuna delle due mostrerà tentennamenti nell’andare in soccorso dell’altra al momento del bisogno. Erano comunque amiche, amiche d’infanzia.
“Il passaporto verde” di Zineb Mekouar, in libreria dallo scorso 22 agosto con Editrice Nord (288pp, 18 euro) è un affresco sociologico del Marocco di oggi, duro e violento, in cui a soccombere sono sempre le donne. “Questo romanzo è quanto di meglio si possa leggere sulla lotta di classe in Marocco oggi” ha scritto Tahar Ben Jelloun, confermando il grande talento dell’autrice. Un romanzo duro, appassionante, meraviglioso.