Come giornalista, e ancor più come uomo, ho deciso, nel mio piccolo, di farmi carico di tutto quest’orrore. Perché lo sento mio, perché mi brucia sulla pelle e perché ritengo che nessuno di noi possa tirarsi indietro di fronte a fatti atroci come quelli di Palermo o alla vicenda della ragazza servita come dessert in un albergo in Sardegna. Ero indeciso se scriverne o meno, soprattutto dopo quello che è accaduto all’amica Fabiana Pacella, che lo ha mirabilmente descritto in un suo racconto qualche giorno fa. Ero indeciso perché ammetto pubblicamente la mia fragilità, la mia insicurezza e la mia impreparazione su questi temi. Ammetto di essermene sempre occupato meno di quanto avrei dovuto. Mi ha spronato a buttar giù queste riflessioni un’amica speciale, che ringrazio per la decisione con cui mi ha indotto ad affrontare l’argomento. È vero: noi uomini abbiamo enormi problemi con l’universo femminile. Non riusciamo, infatti, a uscire dai nostri schemi e dai nostri convincimenti profondi e radicati, non riusciamo a essere diversi, non ci proviamo nemmeno. Certo, non siamo tutti uguali, ma il punto non è la vetta estrema della barbarie bensì il prima. Esiste lo stupro, reato odioso e destinato a lasciare un segno indelebile in colei che lo subisce, ed esiste la cultura dello stupro, destinata a lasciare segni non meno profondi nel contesto della società.
Io le ho viste tremare davanti a me le ragazze che raccontavano l’inferno di Bolzaneto: lì senz’altro non si sono verificati stupri nel senso letterale del termine ma abusi sicuramente sì, oltre agli insulti e a un oceano di odio, violenza e ferocia che ha sconvolto a lungo le vite di chi ha patito quel trauma.
Noi uomini non ci rendiamo conto di quanto sia presente in noi non solo la cultura del possesso ma, più che mai, quella dell’abuso. L’idea che la donna, in fondo, sia un oggetto o poco più, che il suo scopo sia appagare le nostre voglie e farci divertire, che se ne possa disporre a nostro piacimento, che non abbia un’anima e una dignità ma sia unicamente un corpo: questi sono i sentimenti che caratterizzano molti di noi e che non osiamo confessare neanche a noi stessi.
Si sente parlare in queste ore di “castrazione chimica” e altre enormità. Non mi unisco al coro di chi pensa che puntando su norme da Codice di Hammurabi le cose possano migliorare. Mi viene, anzi, voglia di ricordare ad alcuni soggetti come si comportarono nei confronti di una persona a me particolarmente cara, quando sulle loro bacheche andava in scena un tripudio di sessismo, misoginia e furia inumana, con espressioni che ricordavano, per l’appunto, i toni e i termini utilizzati nella caserma di Bolzaneto. Quando sostengo che quella drammatica vicenda abbia scavato un solco nella coscienza del Paese, mi riferisco a questo. Da allora, infatti, si è creata la zona franca, senza Stato né legge, e oggi, ventidue anni dopo, raccogliamo i frutti avvelenati di quell’annientamento di esseri umani per cui nessuno ha chiesto scusa, svanito nell’oblio di una Nazione senza memoria e ormai, purtroppo, senza identità.
No, non cambio idea sul carcere: non è la misura corretta per redimere e rieducare quei ragazzi. Avrebbero bisogno, piuttosto, di un lungo lavoro a contatto con le vittime di crimini simili a quello che hanno commesso loro, avrebbero bisogno di misurarsi con le storie di chi è fuggito da guerre e miseria, avrebbero bisogno di vita vera, di lunghi corsi di scrittura, di ritrovarsi e di comprendere fino in fondo la gravità dell’atto che hanno compiuto. Perché di mostruoso, in questa vicenda, non c’è solo la ferocia ma, più che mai, l’inconsapevolezza. Ancora peggiori del gesto odioso di cui si sono macchiati sono le parole che hanno pronunciato dopo, dimostrando di non essersi resi minimamente conto del dolore che hanno inferto, della vigliaccheria della loro azione e del loro accanimento in sette contro una, sola e nell’impossibilità di difendersi. Nelle esistenze di questi ragazzi deve entrare assolutamente il linguaggio della gentilezza e dell’umanità: quello che purtroppo non possiedono e che stiamo perdendo anche noi.
Non c’è aspetto che mi addolori maggiormente del fatto che in questa Italia, in cui il manifesto politico di un personaggio sui generis balza in vetta alle classifiche di vendita pur esprimendo idee che definire retrograde sarebbe un eufemismo, stia diventando normale ciò che normale non è e non dovrebbe mai essere considerato. L’assalto contro le donne, difatti, non è poi così diverso da quello contro i poveri, gli ultimi, i deboli, gli indifesi e tutte le categorie che si pensa di poter calpestare impunemente. Nel caso specifico, c’è la peculiarità del linguaggio e la precisa modalità dell’attacco, ma le finalità sono le stesse. Affinché venga scardinata questa incultura maschilista, patriarcale e disumana, fondata sulla sottomissione e sulla prepotenza nei confronti di chi non può difendersi, servirebbe non solo l’educazione all’affettività nelle scuole, a partire dalle elementari se non dalle materne, ma anche, e qui mi rivolgo alla nostra categoria, l’accantonamento delle innumerevoli parole malvagie che utilizziamo spesso persino inconsapevolmente.
Che si tratti di una celebre calciatrice spagnola o della più indifesa delle povere criste, il discorso non cambia. Noi uomini abbiamo un problema con noi stessi, con la nostra volgarità, con la nostra indifferenza, con il nostro menefreghismo, con la scarsa, per non dire nulla, importanza che attribuiamo all’amore e con l’aver confuso l’amore con il sesso, come se le due cose dovessero procedere sempre, per forza, di pari passo. Mai come in questo momento, avremmo bisogno invece di generosità, di tenerezza, di prenderci cura dell’altro e di porci non dietro e, meno che mai, davanti alle donne ma al loro fianco, al fine di riscoprire il gusto di batterci insieme per una società più giusta nella quale staremmo meglio tutte e tutti.
Scrivo senza certezze, senza risposte, senza sapere bene cosa fare. Scrivo, lo ribadisco, con la mia fragilità di uomo e con tutte le mie insicurezze, le mie incomprensioni e, di sicuro, con i gravi e continui sbagli di cui io stesso mi sono reso protagonista. E senza chiedere attenuanti, per quel che conta e che vale, chiedo scusa, con l’auspicio di poter contribuire alla causa di una comunità migliore, nella quale vivere insieme e riuscire ad amarci davvero.
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