57 giorni. Sono tanti quelli che distanziano pochi chilometri: da Capaci a Via D’Amelio. I giorni che hanno cambiato tutto, nella coscienza di un popolo, nella guerra ingaggiata a uno Stato democratico.
Fu la mafia certo, ma non fu soltanto la mafia. Non fu soltanto Cosa nostra.
E d’altronde l’aveva detto Riina agli altri capimafia: “Bisogna prima fare la guerra per poi fare la pace”. È quella che la mafia siciliana ingaggiò, non da sola, appunto. No, diciamolo chiaramente: non furono soltanto i boss ‘brutti, sporchi e cattivi’. Furono quantomeno aiutati, se non di più, da persone estranee all’organizzazione mafiosa.
Ho tentato di raccontarlo, con nomi e cognomi, nel mio libro “Traditori”. Perché la memoria deve andare di pari passo con la verità.
Perché quei 57 giorni furono usati come arma per ostacolare il desiderio di verità di chi sapeva di essere il prossimo a venire pianto: il giudice Paolo Borsellino. Mentre lui faceva di tutto per comprendere chi e perché avesse ucciso l’amico e collega Giovanni Falcone, altri sceglievano vie più «comode» per porre fine alle bombe, al terrore.
Si arrivò così alle 16.58 e 20 secondi. Lo scoppio, la fine del mondo.
Borsellino, con i poliziotti Catalano, Li Muli, Cosina, Loi e Traina saltano in aria.
La storia si ripete, la Sicilia, l’Italia sono nuovamente in ginocchio.
E l’Agenda rossa è l’emblema di ciò che manca: la verità.