Pensando ad Andrea Purgatori, che già ci manca moltissimo, rivedo la scena del film “Fortapasc” in cui il caporedattore del Mattino, passeggiando sulla riva del mare di Napoli, dice al giovane cronista che lui non è il giornalista-impiegato ma un giornalista-giornalista. Il film era scritto da Purgatori e dedicato alla vita breve di Giancarlo Siani, ucciso dalla camorra a 26 anni quando ancora non aveva avuto il contratto giornalistico, era, insomma, un precario.
Andrea era il miglior giornalista-giornalista possibile, il miglior esempio di giornalismo investigativo (quello cancellato dal contratto di servizio della Rai) per tre decenni, dalla metà degli anni ’80 quando lo scoop sul tritolo scoperto sui resti del DC9 caduto a Ustica lo portò al successo anche popolare. Ma soprattutto, e questa è una pagina di storia, aprì lo squarcio decisivo in quello che lui poi chiamò il “muro di gomma”, che diede il titolo al film di Marco Risi. Perché quello che colpisce oggi ricordandolo è che Andrea Purgatori è stato una professionalità poliedrica, un grandissimo intellettuale che se lo chiamavi così si infuriava, un artista a tutto tondo che ha portato nel cinema, della scrittura, nella sceneggiatura sempre e comunque l’inchiesta e la ricerca della verità. Anche con enorme ironia, autoironia e uno sguardo disincantato ma sempre appassionato sul mondo. La nostra generazione deve sentire una responsabilità, quella di fornire modelli ed esempi a chi intraprende oggi, in un mondo tutto diverso, la professione giornalistica. Non credo sia facile trovare una personalità da studiare migliore di quella di Purgatori. L’Ordine, la Fnsi, la Siae, gli autori cinematografici, i documentaristi, tutti insieme dovrebbero lavorare sull’opera che Andrea ci ha lasciato con quello che ha realizzato e utilizzarla come materia di studio per le scuole di giornalismo, e non solo. Perché lui ha fatto tutto e al meglio. Le inchieste sulla carta stampata senza fermarsi davanti a niente, i documentari scovando storie nei posti più impensati del mondo, i film scritti inventando il metodo della docu-fiction e, nell’ultima parte della sua meravigliosa carriera, il conduttore televisivo avulso dalla tossica messinscena dei talk show. L’unico che spiegava, raccontava, documentava, dialogava solo con i competenti e non scatenava risse per fare ascolto. Un vuoto incolmabile.