Cari insegnanti,
vi scrivo con stima e affetto. Nella mia famiglia, infatti, come ho avuto modo di affermare già in altre occasioni, moltissime persone hanno svolto o svolgono tuttora questo bellissimo mestiere, il che costituisce per me motivo di orgoglio e di passione personale. Non è un caso, del resto, se quando è uscito il nostro saggio per Paper First, una delle dediche più significative l’ho rivolta proprio ai miei professori, senza i quali quasi nulla sarebbe stato possibile e la mia vita sarebbe stata diversa e peggiore. Se vi scrivo, dunque, è perché ho letto, negli ultimi mesi, troppe riflessioni che non solo non condivido ma reputo addirittura pericolose. A indurmi a redigere queste righe è stata soprattutto la lettera di un docente di Trento, che insegna nello stesso istituto divenuto tristemente celebre per la storia della ragazza bocciata dal consiglio di classe, ammessa agli esami grazie a un ricorso al TAR e bocciata nuovamente alla Maturità. Ebbene, vorrei dire a questo giovane docente e a tanti altri di cui sto prendendo in considerazione il pensiero che quando si arriva alle carte bollate, la scuola ha già fallito. Hanno fallito i professori, hanno fallito i genitori e, in ultima battuta, hanno fallito anche i ragazzi e le ragazze. La scuola, difatti, prim’ancora delle nozioni, dovrebbe fornire gli strumenti per stare al mondo, per sentirsi comunità, per condividere sogni e speranze, per affrontare vittorie e sconfitte, per trarre insegnamento da ciò che è andato male e non montarsi la testa quando le cose vanno bene.
Seguendo ieri notte un documentario dedicato al Grande Torino, ho appreso dal compianto Lino Cascioli che lo squadrone allestito dal presidente Novo nacque proprio grazie a una sconfitta, rimediata a Venezia e costata ai granata lo scudetto del ’42, che andò alla Roma con merito. Spesso accade così: nel calcio, nello sport e nella vita. Per questo sono sempre stato contrario a una scuola che boccia, che umilia, che caccia, che punisce: non serve a nulla e a nessuno, non aiuta a crescere, non forma, non consente ai più deboli di migliorare e non fa sì che i potenziali numeri 10 capiscano che puoi anche essere Mazzola, volendo restare nella metafora del Grande Torino, ma se intorno a te non gioca un collettivo affiatato, non vai da nessuna parte.
Cari insegnanti, voi parlate spesso del vostro prestigio perduto, e penso che abbiate abbastanza ragione. Ma se vi illudete di poterlo recuperare attraverso metodi gentiliani, ossia per mezzo del terrore, sappiate che siete fuori strada. Mussolini sosteneva che quella di Gentile, classista, escludente e sessista, fosse “la più fascista delle riforme” e aveva ragione, in quanto la scuola dà quasi sempre il tono ai governi. Come intendi educare ragazze e ragazzi, in base a quali valori, ideali e prospettive ci dice molto sul tuo programma di governo, e quello fascista era chiarissimo. Peccato che non abbia salvato l’Italia ma l’abbia condotta nel baratro, nella vergogna e nella devastazione più assoluta, morale e materiale.
Ho letto con grande attenzione la risposta che vi ha fornito il ministro Valditara, il quale parla di “autorità” in maniera quasi ossessiva. Vorrei dire a questo signore che non è di autorità che ha bisogno la nostra società ma di autorevolezza e di esempi positivi, e diciamo che i comportamenti dell’attuale esecutivo non vanno proprio in questa direzione. Afferma ancora, il nostro eroe, che per troppo tempo ha avuto luogo la tradizione del 6 politico: ci dica dove perché a noi nessuno ha mai regalato nulla. Vede, signor ministro, la verità è un’altra. C’è stata una stagione, ormai remota, in cui si è pensato che i ragazzi non fossero imbuti da riempire ma fiori da far sbocciare, in cui si sono formati gli insegnanti non per somministrare inutili quiz a crocette ma per trasmettere la passione per la cultura ed il sapere. E c’è stato persino un tempo, pensi un po’, in cui qualche insegnante si ricordava ancora di quando era stato ragazzo, dunque sapeva distinguere la bravata dal reato, il fisiologico bisogno di ribellione giovanile dalla mancanza di rispetto e lo spirito di gruppo dall’omertà. Erano gli anni in cui andavo a scuola io, ad esempio: un periodo in cui, nonostante pessimi ministri e ancor peggiori riforme, qualcosa per fortuna si salvava, e nella mia classe c’era una professoressa di matematica che si batté non solo per tenerci uniti ma per farci andare avanti insieme, prediligendo la coesione ai numeri e alle medie e facendo in modo che non si affermasse un insieme di singoli ma una comunità in cammino. Quell’esempio di autorevolezza e umanità me lo porterò dietro per sempre, anche se quella materia non sarà mai il mio mestiere; anzi, confesso pubblicamente che ero proprio negato e lo sarò per sempre. Anche accettare i propri limiti e sapersi fermare al momento opportuno, senza pretendere da se stessi l’impossibile, è un segnale di maturità.
Cari insegnanti, ho l’impressione che vi stiano strumentalizzando, che vogliano porvi contro i vostri ragazzi e i loro genitori, che vogliano dividere un ambiente che, per funzionare, deve prendersi per mano. Ma così perdiamo tutti.
Dieci anni fa, dalla Thailandia, arrivò uno spot meraviglioso. Si vede un bambino inseguito dalla proprietaria di un negozio per aver commesso un furto e un commerciante che, dopo avergli chiesto se la mamma fosse malata, accertatosi che era così, paga i prodotti al suo posto e gli dona anche una zuppa di verdure. Trent’anni dopo quel commerciante ha un ictus e l’operazione è costosissima, al punto che la figlia mette in vendita il negozio, ma ecco che quel bambino, divenuto medico, gli regala l’intervento chirurgico, scrivendo che il conto era stato già saldato trent’anni prima con tre blister di antidolorifici e una zuppa di verdure.
Vedete, cari insegnanti sottoscrittori di appelli alla massima severità, voi potete anche crogiolarvi nel cattivismo oggi dilagante, ma tenete presente una cosa: quando usciranno da scuola, quei ragazzi e quelle ragazze potrebbero essere i medici da cui un giorno andrete a farvi curare, gli avvocati cui vi rivolgerete per avere giustizia, gli architetti cui affiderete l’arredamento della vostra casa o, semplicemente, le persone che vi telefonano ancora, quando tutto è finito e non dovete metter loro più alcun voto, per chiedervi come state. È allora che capirete se avete cresciuto dei mostri intrisi d’odio o delle persone perbene. È allora che il vostro lavoro avrà dato i suoi frutti o meno.
P.S. Due dei magistrati che si sono occupati della tragedia di Bolzaneto erano figli, rispettivamente, di un operaio e di un ferroviere. Vedete, se da una magistratura di estrazione fascista si è passati a una magistratura in grado di comprendere il dolore e la sofferenza degli ultimi, di provare empatia e di tenere insieme i codici e il rispetto per la dignità umana, è merito di quella stagione di progresso e riforme che l’attuale inquilino di viale Trastevere tanto depreca. I giudici sono senz’altro delle autorità, ma quei magistrati, e non solo loro, hanno saputo tener presenti anche le ragioni dell’anima, quelle che danno un senso al nostro stare insieme.
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