Con monsignor Luigi Bettazzi, vescovo di Ivrea e ultimo testimone di quella stagione conciliare della Chiesa che ha cambiato per sempre il nostro immaginario collettivo, in un decennio, gli anni Sessanta, caratterizzato da governi progressisti e inclini al dialogo con tutti i settori della societa, ci ha detto addio, all’età di novantanove anni, un galantuomo e una figura che ci mancherà non poco in quest’amara stagione. Monsignor Bettazzi, infatti, era un costruttore di ponti e un cultore della pace, una personalità emblematica di quella Chiesa al servizio degli ultimi e dei poveri che sta avendo in Francesco u protagonista di tutto rispetto e nel cardinal Zuppi un degnissimo interprete.
Di monsignor Bettazzi ricordiamo soprattutto il carteggio con Enrico Berliguer: un confronto fecondo, nella stagione della solidarietà nazionale, preludio alla cosiddetta “Terza fase”, ossia alla fine del “Fattore K” che prevedeva l’esclusione dei comunisti dal governo, generando squilibri e distorsioni nel cuore del Paese di cui, avendo dovuto attendere l’abbattimento del Muro di Berlino per dar vita a una democrazia dell’alternanza comunque inficiata da innumerevoli distorsioni, paghiamo tuttora le conseguenze.
Proprio come Moro e altri cattolici democratici figli della stessa ispirazione, quella del Codice di Camaldoli (di cui ricorre, proprio in questi giorni, l’ottantesimo anniversario), per intenderci, monsignor Bettazzi partiva dal presupposto che tutti gli esseri umani sono uguali e godono di pari dignità. Per lui non c’erano distinzioni, se non ideologiche, fra comunisti, socialisti, democristiani e liberali. Non accettava alcuna demonizzazione e fu una delle personalità più attive nella fase storica in cui tutto sembrava possibile, compresa una rivoluzione senza precedenti in un ambiente fino ad allora profondamente conservatore come quello ecclesiastico. Giovanni XXIII prima e Paolo VI poi inaugurarono un’epoca di riforme e cambiamenti profondi che avvicinò la Chiesa ai fermenti del nuovo mondo, anticipando il Sessantotto e ponendo l’orecchio a terra, propensi com’erano all’ascolto dei tumulti che scuotevano nel profondo l’universo giovanile e la collettività nel suo insieme.
Nel dialogo con Berlinguer, l’incontro costruttivo fra un laico e un cattolico, Bettazzi diede prova di straordinaria curiosità per l’altro, ben sapendo che predicare il Vangelo significa innanzitutto abbracciare il prossimo e venire incontro alla diversità. Detestava, infatti, il pensiero unico, il conformismo, la grettezza. Non sopportava chi, nella Chiesa, anziché farsi portavoce della parola di Dio aveva scelto di strumentalizzarla per fini politici e ambizioni personali. Non a caso, ribadiamo, era anche un convinto sostenitore della pace come unica forma di convivenza possibile sulla Terra, ripudiando ogni violenza e deprecando la folle corsa agli armamenti. V’erano in lui una spiritualità concreta, una straordinaria profondità di pensiero e una ricchezza argomentativa che metteva a proprio agio ogni interlocutore. Aggiungiamo che il suo era un cattolicesimo adulto, in grado non solo di riconoscere e di accettare ma addirittura di valorizzare il principio cavouriano del “libera Chiesa in libero Stato”, ritenendo che tutte le istituzioni dovessero prendersi per mano e collaborare in nome del bene comune.
Una figura radicalmente diversa ma simile nell’impostazione di fondo e negli ideali che lo caratterizzavano era quella di padre Paolo Dall’Oglio, di cui parliamo al passato solo per sottolinearne l’assenza. Dieci anni fa, difatti, veniva rapito in Siria e da allora di lui non si sono perse le tracce. Ci siamo augurati tante volte che fosse vivo, di ricevere sue notizie, di riuscire a metterci in contatto con i rapitori, di poterlo riavere fra noi. Non sappiamo se accadrà, ma questo non significa certo che molleremo. Non ci arrenderemo mai nella ricerca della verità e della giustizia: di qualunque tragedia si tratti, che riguardi un singolo o una comunità in cammino.
A padre Paolo, ovunque si trovi, rivolgiamo un pensiero colmo d’affetto e gratitudine. Si era recato in quella terra martoriata con l’animo del missionario, a sua volta un costruttore di ponti e un portatore di pace. Non era un illuso o un ingenuo: era semplicemente un uomo che non accettava il mondo così com’è e voleva impegnarsi in prima persona per provare a cambiarlo. Le poche conquiste sociali e civili di questo periodo per il resto colmo di tristezza si devono a figure così. Per questo non smetteremo mai di cercarlo, di volergli bene e, soprattutto, di seguirne l’esempio. Perché padre Paolo era un punto di riferimento e un benemerito, e vorremmo che non facessero notizia sempre e solo i furbastri e i profittatori. Proprio come lui, avvertiamo anche noi il dovere morale di non accettare il mondo così com’è, trattandosi di un pianeta ormai invivibile e dal quale gli esseri umani rischiano seriamente di scomparire.
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