Rossella Puccio è una giornalista freelance che vive a Palermo. Oltre ad occuparsi di cronaca locale e regionale, si dedica al giornalismo d’inchiesta e al fotogiornalismo, realizzando reportage, inchieste e documentari. Ha collaborato con diverse testate nazionali e regionali, tra cui La Repubblica, Giornale di Sicilia, Corriere del Mezzogiorno e Palermo Today.
Cura il blog personale Todoscomodo , dove scrive, tra gli altri, di temi sociali, diritti umani, condizione femminile, povertà. Da qualche anno si dedica anche alla progettazione sociale nell’ambito della giustizia riparativa e della rigenerazione urbana in quartieri a rischio.
La notte del 3 aprile scorso l’auto di famiglia di Rossella Puccio è stata incendiata nel quartiere Sferracavallo di Palermo, un attacco che sembra essere un chiaro gesto intimidatorio legato al suo lavoro di giornalista.
Quello dello scorso aprile non è stato però il primo atto intimidatorio che ha subito…
Quello di aprile è solo l’ultimo di una serie di episodi di violenza che ho subito. 13 anni fa mi tagliarono tutte 4 le ruote della macchina e mi fecero trovare un coltello incastrato nel cofano. Nel 2020 sono stata aggredita, mi hanno dato calci e pugni, rotto l’attrezzatura… tutto sotto gli occhi di diverse persone che si fermavano a guardare senza però che nessuno intervenisse. Questa è forse una delle verità peggiori e difficili da superare. A un certo punto mi è stato persino consigliato di abbandonare alcune inchieste e di allontanarmi dalla città per un certo periodo.
Quali sono le tematiche di cui ti occupi e che possono risultare in qualche modo scomode?
Nel corso della mia carriera, mi sono occupata soprattutto di temi sociali, di diritti umani e di controinformazione scientifica, dall’emergenza abitativa ai diritti dei migranti, da temi legati alla povertà, alla condizione femminile e a quelle dei minori [nel 2013 ha ricevuto il premio Human Rights Defenders di Amnesty International, ndr]. La mia formazione si inserisce nell’ambito del giornalismo di inchiesta, del documentario e del fotogiornalismo. Negli ultimi anni, soprattutto successivamente agli atti di violenza di cui sono stata vittima, mi sono dedicata alla progettazione sociale mettendo la mia esperienza giornalistica a disposizione di progetti legati alla giustizia riparativa, alla nonviolenza, alla rigenerazione urbana e sociale in quartieri a rischio.
Di recente ad esempio ho lavorato con persone in misura detentiva alternativa. Questo lavoro mi ha permesso di capire che spesso queste persone sono cresciute in un contesto di violenza in cui non era possibile scegliere tra bene e male e che quindi sono in certo senso loro stesse vittime. Entrare in contatto con queste persone, con la loro umanità così dolente, mi ha aiutato a comprendere e in qualche modo a lavorare per sanare la mia ferita, per costruire, a partire da ciò, qualcosa di buono. Io non posso giustificare chi mi ha fatto del male, ma posso provare ad allargare la prospettiva nel tentativo di comprendere i motivi più profondi che spesso si celano dietro atti di violenza, anche quando sono così incomprensibili.
In che modo attacchi come quello dello scorso aprile incidono sulla sua vita lavorativa e su quella privata?
Quando si parla di difendere la libertà di stampa e il diritto di cronaca, spesso non si pensa alle implicazioni rispetto alla vita del giornalista. Quando si ricevono schiaffi, non solo fisici, ma anche psicologici ed emotivi, questi hanno un impatto profondo sulla persona, sulle parole, sul modo di fare cronaca. Ho sempre vissuto la mia professione con molta serietà, come un atto di responsabilità verso gli altri, ma occorre avere una grande forza per non farsi condizionare da episodi come questo. Esercitare il proprio diritto di critica e denuncia in uno spazio sicuro è un conto, ma quando la tua auto viene incendiata, le ruote bucate e la tua famiglia rischia di essere messa in pericolo, allora ci sono istanti in cui ci si ferma e ci si chiede che cos’altro potrebbe succedere.
Io sono una giornalista freelance e quando si è freelance tutto il carico lo si vive da soli: ho dovuto ricomprare l’attrezzatura da sola, ho subito uno stress post-traumatico grave che non ho potuto affrontare in modo adeguato perchè la terapia è veramente costosa. C’è sempre una pioggia di solidarietà quando accade qualcosa, poi però spesso si resta soli.
Cosa la motiva ad andare avanti in un contesto così difficile?
È una questione di responsabilità. Di fronte ad un’ingiustizia oppure ad una situazione particolarmente allarmante non riesco a girarmi dall’altra parte. Sono sempre stata così, ho iniziato a denunciare atti mafiosi ancor prima di diventare giornalista. Spesso mi chiedono “ma chi te lo fa fare?”.
Tendo a non avere paura, perché penso che la verità sia rivoluzionaria. Mi prendo la responsabilità delle mie scelte, ma certo, finché riguarda solo me è un conto, ma quando si tratta anche della mia famiglia allora è ben altra cosa.
Che impatto ha avuto questo episodio a livello locale?
La comunità mi ha dimostrato la sua vicinanza e solidarietà. Grazie alla sensibilità di una consigliera il mio caso è arrivato in consiglio comunale, il quale si è impegnato per rafforzare la sicurezza del quartiere dove è avvenuto l’attacco incendiario. Attualmente però, nessuna delle disposizioni previste, tra cui il potenziamento dell’illuminazione e l’installazione di telecamere di sicurezza, è stata attuata.
Anche alcuni cittadini mi hanno mostrato la loro vicinanza in maniera più concreta, ad esempio avviando una raccolta fondi , cosa che mi ha aiutata a coprire i costi dei danni subiti e che altrimenti dovrei affrontare da sola, perchè in Italia non esistono fondi a cui un giornalista può accedere in casi come questo.
Che tipo di supporto ha ricevuto dalla comunità giornalistica?
Devo dire che ho ricevuto solidarietà e supporto anche da parte della stampa , dell’Ordine dei Giornalisti , di Assostampa Sicilia e della FNSI che hanno tentato di costituirsi parte civile nella seconda udienza di maggio, ma purtroppo la richiesta è stata rigettata. Fondamentale fin da subito è stato il supporto professionale e morale della ONG Ossigeno per l’Informazione, che si è costituita parte civile [a gennaio di quest’anno è iniziato il processo relativo alle aggressioni subite da Rossella Puccio nel 2020; l’ultima udienza si è tenuta lo scorso 19 maggio, ndr].
Si può sempre fare di più, le parole e i gesti di solidarietà sono bellissimi, ma non bastano. Una cosa utile – e che ho proposto sia all’Ordine dei Giornalisti che alla Federazione Nazionale Stampa Italiana, sarebbe istituire un organismo addetto alla progettazione per accedere ai fondi europei per la tutela della libertà di stampa. Avere maggiori risorse a disposizione sarebbe utile per poter offrire maggior aiuto ai giornalisti vittime di attacchi o intimidazioni; ho anche suggerito di avviare uno sportello per il supporto psicologico.
Ci tengo a sottolineare che senza un sostegno adeguato ai giornalisti non solo si rischia di ledere la libertà di stampa e il diritto di cronaca, ma anche il diritto dei cittadini di essere informati: se non ci sono tutele adeguate il rischio di autocensura da parte dei giornalisti è forte, perché nessuno si sentirà sicuro di coprire certi temi o denunciare certi fatti.
Che cosa ci dicono episodi come questi sulla condizione generale in cui lavorano i giornalisti nel nostro paese?
I dati relativi al giornalismo in Italia sono allarmanti e non è un caso se si parla di “guerra al giornalismo”.
Gli attacchi ai giornalisti sono molto più frequenti di quello che si vede perché purtroppo il rapporto tra episodi di violenza e denunce è molto basso. I dati ufficiali dell’Osservatorio del ministero dell’Interno prendono in considerazione solo gli episodi forniti dalle forze dell’ordine, ma questi non sono veritieri e i numeri sono molto più alti.
Parlando con diversi colleghi mi sono resa conto che molti non denunciano perché hanno paura. In territori come la città di Palermo si ha a che fare con persone pluripregiudicate o con affiliazioni più o meno dirette con un tessuto sociale inquinato.
In alcuni casi le denunce non vengono presentate anche perché i processi sono troppo lunghi oppure perché spesso i casi vengono archiviati. Io stessa alcune volte sono arrivata a pensare “non denuncio perché tanto non serve a nulla”.
Ci sono difficoltà intrinseche al lavoro di giornalista freelance?
Il giornalismo in Italia soffre ormai di un precariato generale, gli editori pagano sempre di meno e molti si oppongono all’adeguamento dei contratti, ci sono stati molti licenziamenti, i compensi sono molto bassi e l’equo compenso è una chimera, nonostante l’impegno di associazioni come Assostampa e FNSI.
Come freelance è tutto più difficile, proporre delle inchieste poi è dispendioso e anche pericoloso: un’inchiesta fatta bene richiede tempi molto lunghi col rischio che se poi ti denunciano è la fine. In passato mi è capitato di non trovare un editore disposto a pubblicare storie che per me erano importanti e di pubblicarle in autonomia.
Alcune di queste, ad esempio il documentario Otto senza un Tetto sull’emergenza abitativa o l’ultimo servizio Ordine dei giornalisti. Ordine dei terroristi sull’aggressione alla collega Raffaella Maria Cosentino. Ma non sempre si può rischiare. A volte si deve rinunciare a raccontare alcune storie e chi ne paga le conseguenze sono anche i cittadini e il diritto di cronaca.
(Nella foto Rossella Puccio)