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Premio Zavattini. Intervista a Beatrice Baldacci: la via del cinema attraverso il dolore

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Supereroi senza superpoteri di Beatrice Baldacci, sviluppato e realizzato nell’ambito del Premio Zavattini é tra i vincitori dell’edizione 2018/19. Si è aggiudicato il Premio FEDIC quale esempio di come il riuso creativo dei materiali d’archivio sviluppi una creatività filmica incisiva e, in questo caso, doppiamente originale poiché delicatamente autobiografica. In seguito “ Superoi senza superpoteri” è stato l’unico corto italiano in concorso alla 76° Mostra del cinema di Venezia, nella sezione “Orizzonti”. Nel 2021 Beatrice Baldacci ha presentato alla 78° Mostra del Cinema di Venezia il suo primo lungometraggio “La tana”, storia di un timido ragazzo di campagna che si innamora di una misteriosa ragazza, la quale lo trascinerà nei non detti di una oscura malattia familiare. Beatrice Baldacci ha raccontato ad Articolo21 il suo percorso.


Quando hai scoperto il tuo amore per il cinema?

Sono nata nel 1993 a Città di Castello, in provincia di Perugia, in una famiglia nella quale, tranne mio nonno, nessuno era appassionato di cinema. Da piccola, quasi tutti i pomeriggi, guardavo a ripetizione con lui i film di Totò ed ero fissata con “Totò, Peppino … e la malafemmina”. Mio padre un giorno mi regalò una telecamera, con la quale mi divertivo con gli amici a realizzare spot pubblicitari.  Quando mi sono diplomata decisi di iscrivermi alla facoltà di psicologia perché mi interessavano gli esseri umani. Sentivo progredire in me un’insoddisfazione a cui non avrei saputo dare una definizione: era la spinta verso una realizzazione artistica. La mamma era insegnante di storia dell’arte e dipingeva, lo stesso mia nonna. Tale retaggio premeva a mia insaputa. Accadde che, senza dir niente a nessuno, provassi a fare domanda per una borsa di studio all’Accademia di Belle Arti: la RUFA, Rome University of Fine Art. Vinsi la borsa e, solo dopo, lo annunciai ai parenti. Mia madre mi ha sempre sostenuta perché sentiva le mie scelte vicine alla sua storia.  Alla fine mi trasferii nella capitale dove ho frequentato cinematografia, avendo come insegnanti, tra gli altri, i registi Daniele Ciprì e Claudio Cupellini.


Il corto “Supereroi senza superpoteri” narra il doloroso legame con tua madre e la scoperta in un’età acerba della caducità della vita …

Negli ultimi anni di liceo, si manifestarono i sintomi iniziali e misteriosi della malattia di mia madre: una degenerazione lenta la cui diagnosi arrivò, come un fulmine a ciel sereno, poco dopo essermi iscritta all’università a Roma. Il vero dolore lo si conosce nel suo dilatarsi nel tempo, nel doverlo sopportare a lungo.  Se accade nel periodo della formazione, della ricerca, del nostro sguardo sulla vita, pesa profondamente sulle scelte che seguono. Tale dolore è confluito nel cortometraggio “Supereroi senza superpoteri” con il quale nel 2019 ho vinto il Premio Zavattini, indetto dall’Archivio Audiovisivo del Movimento Operaio e Democratico, e da lì in concorso alla 76ma edizione della Mostra di Venezia. In “Supereroi senza superpoteri “, realizzato con immagini familiari di consumate Vhs trovate nel cassetto dei ricordi, sintetizzavo il rapporto con mia madre, la perdita traumatica delle illusioni della sua onnipotenza e il recupero prezioso di ciò che resta per sempre. Mia madre a Venezia non c’era. C’era mio padre che quando ha visto il corto, e anni dopo anche il mio primo lungometraggio, si è ricreduto e mi ha apprezzata.


Dal premio Zavattini al primo lungometraggio come è avvenuto?

Quando capisci che i “Supereroi” non esistono, improvvisamente cresci e senti che hai delle responsabilità. Se succede troppo presto è uno scossone: credi che certe cose non possano toccarti, invece accadono. La creatività fortunatamente è per il dolore una catarsi: l’occasione si era presentata con Lumen Film, che mi ha chiesto se volessi partecipare alla Biennale College –  iniziativa della Mostra di Venezia che promuove nuovi registi offrendo un contributo per lungometraggi a micro budget –  la storia che avevo in mente era adatta perché c’erano poche location, pochi attori, l’ho proposta ed è stata accettata. Così è nata la mia opera prima che si intitola “La tana” ed è l’elaborazione ancor più approfondita dell’esperienza con mia madre, un travaglio che mi ha portato a riflettere anche sul problema dell’eutanasia. Narra l’attrazione tra due adolescenti uno più innocente, l’altra più problematica e brusca, ma solo all’apparenza. I luoghi sono ispirati alla mia infanzia. La tana non è un posto concreto, reale, ma quello spazio dove andiamo a nasconderci quando non stiamo bene. E dove speriamo che qualcuno ci venga a cercare.  Alla 78ª Mostra di Venezia il film è stato premiato dall’associazione dei Golden Globe e dal 28 aprile 2022 è stato nelle sale italiane.


Cosa ti hanno dato queste prime realizzazioni?

Da bambina sono stata timidissima, ora affronto le situazioni di petto e ciò che trovo difficile diventa una sfida. Mi butto e vada come vada. Così è stato per la mia crescita professionale.  In “Supereroi senza superpoteri”, ad esempio, avevo vinto la timidezza e trovato la forza di mostrare le emozioni più intime, con la mia voce, mediante le immagini della mia famiglia. Comunicare con gli altri attraverso il cinema mi ha aperto un mondo: nel 2022 sono stata a Los Angeles dove ho trascorso un mese perché, grazie al premio ricevuto a Venezia, mi è stata offerta una residenza di formazione artistica con altri registi. Si è trattato di un periodo molto intenso: mi trovavo insieme a un gruppo di colleghi provenienti da ogni parte del globo: dagli USA, dall’Ecuador, dall’Argentina. Cibo per l’anima che mi ha chiarito cosa è il cinema negli altri paesi, il loro modo di narrare, le difficoltà produttive. Uno spaccato che ora vedevo da più prospettive. Anche durante la Biennale College, mentre realizzavo “La tana”, ho avuto tutor internazionali, circostanza che amo perché amplia le mie conoscenze oltre le abitudini.  Ciò detto, pur se il mio film mi ha dato soddisfazione interiore, dal punto di vista economico non c’è stato riscontro, almeno finora. Per guadagnarmi da vivere insegno pratica di laboratorio in una scuola di cinema, che si chiama NABA, qui a Roma. Sono una tutor che aiuta i ragazzi a sviluppare i loro progetti.

 

E domani?

Vorrei diventare un bel “essere umano” e poi una brava regista. Perché capita che, nell’ambiente del cinema, si possa perdere un po’ la bussola: c’è tanta competizione, tanta voglia di arrivare, pulsioni per cui è difficile mantenere dei principi con i propri simili. Cosa per me essenziale. Il mio sogno sarebbe continuare a fare il cinema che mi piace, il che non significa far solo ciò che voglio, ma realizzarlo nella maniera migliore, aggiungere qualcosa di nuovo e non ripetere dinamiche invecchiate. Un traguardo non facile, per cui occorre tenacia.


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