“Lo sapevamo tutte”, è l’hashtag che circola da quando il corpo di Giulia Tramontano è stato ritrovato, coperto da qualche pezzo di plastica, in un anfratto a poche decine di metri dalla casa dove viveva con il suo carnefice. Un essere spietato, che ha ucciso, a coltellate, la giovane donna, e il bimbo che portava in grembo, due vite spazzate via da uno senza valori, che per giorni ha tenuto in auto il corpo della persona che avrebbe dovuto amare. E definirlo narciso, come hanno titolato alcuni media, è una lettura riduttiva, parzialmente giustificativa, nei confronti di chi, dopo aver accoltellato a morte la compagna, ha telefonato all’altra con cui aveva una relazione per dirle “ora sono libero” e, intanto, ha provato due volte a bruciare il corpo di una ragazza che aveva sul volto la felicità di chi si prepara a dare vita e non a vedersela togliere.
“Lo sapevamo tutte” perché, purtroppo, questo copione lo vediamo ripetersi troppe volte: il motivo per cui gli uomini ammazzano le donne cambia, può essere possesso, negazione della libertà altrui, qualsiasi libertà, anche di decidere di andarsene e uscire dal tunnel della violenza, desiderio di controllo, considerazione della compagna come oggetto di cui disfarsene quando se ne trova un’altra, che piace di più, a cui, magari, fra qualche tempo, riservare lo stesso atroce trattamento.
Dietro molestie, stalking, abusi, violenze, fuori e soprattutto dentro casa, femminicidi ci sono le diseguaglianze di genere, di cui la nostra società continua ad essere intrisa. E non si scriva, come è accaduto nel tweet di un quotidiano (il titolo è stato corretto dopo le proteste indignate), che “bisogna insegnare alle donne a salvarsi”. Enon si dica, come ha fatto la pm incaricata del caso di Senago, “che le ragazze non devono andare all’ultimo incontro”. Non è con le parole, spesso sbagliate e fuori luogo, né con i ‘buoni consigli’, che si cambia la mentalità, diffusa, che sono le donne a doversi proteggere: si dica, ma soprattutto, si faccia, anche nell’informazione, uno sforzo ad educare gli uomini al rispetto dei diritti umani, perché è un diritto fondamentale quello che è stato negato, per sempre, a Giulia e al piccolo Thiago.
Serve smettere di caricare di responsabilità le ragazze e giustificare i ragazzi, perché questo è il più grande, e pericoloso, stereotipo, che, di fatto, ammette una inferiortà del genere femminile, portato di una cultura ancora fortemente patriarcale e androcentrica.
Questo cambio di passo lo dobbiamo, chi è nella scuola, nelle istituzioni, anche nell’informazione, a Giulia, alle quasi 50 donne ammazzate da inizio anno. E lo dobbiamo a Pierpaola Romano che, nelle stesse ore in cui veniva arrestato il femminicida di Senago, è stata ammazzata dall’uomo con cui aveva deciso di interrompere la relazione, anche per curarsi per un grave problema di salute. Una esecuzione in mezzo alla strada, premeditata: lei non è andata all’ultimo incontro, aveva in mano i fogli dell’Asl sulla sua malattia, e si è trovata di fronte il suo assassino, che aveva preparato tutto.
Non sono le donne che devono imparare a difendersi, è la società che deve proteggerle. Anche il giornalismo ha un ruolo fondamentale, da esercitare ogni giorno, applicando uno strumento essenziale come il ‘Manifesto di Venezia’: l’informazione è cultura ed è anche con la cultura che si costruisce una società più a misura delle donne.
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