“Le margheritine”, di Vera Chytilovà, Cecoslovacchia, 1966
Presentato nella sezione Cinema restaurato del festival di Cannes 2022, pietra miliare della Nouvelle Vague cecoslovacca, soffocata insieme alla Primavera di Praga del 1968, il film della geniale Chytilovà è una metafora potente sulla libertà assoluta e anarchica, bene primario e base indispensabile per ogni tentativo di felicità possibile. Impostato con un ritmo dadaista che deve molto a Godard, diventa anche un’opera antimilitarista (il film si apre e si chiude con una serie di bombardamenti che rievocano il Novecento bellico da Hitler al “Vietnam”) e femminista antelitteram, con le due straordinarie protagoniste impegnate a distruggere quanto di dannosamente “perfetto” realizzato dal maschio borghese (e siamo nella Cecoslovacchia comunista!). Accostabile al coevo “Morgan matto da legare” di Karel Reisz (altra Nouvelle Vague, quella inglese del “Free cinema”) e quell’ “Hollywood party”, di Blake Edwards, 1968, anticipatore della “New Hollywood”, “Le margheritine” destruttura il set e la realtà, ponendosi come costruttore di un mondo nuovo ed utopistico, il cui limite è segnato solo dal desiderio di felicità. Sì, anche Bunuel fa capolino dal buco della serratura di un’opera d’arte singolare ed inimitabile, che usa il cinema come ultima possibilità di mettere in scena, e quindi materializzare, quel sogno impossibile che fu il Sessantotto, primo ed unico momento, ad oggi, di buona globalizzazione.
“Primo amore”, di Dino Risi, Ita,1978.
Dopo “l’estate” degli anni ’60, Dino Risi racconta “l’inverno” degli anni ’70. Da “Profumo di donna”, 1974, ad “Anima persa”, 1977, da “Primo amore”, 1978, a “Caro papà”, 1979, il dire del grande regista milanese si fa sempre più introspettivo e analitico (ricordiamo che Risi era uno psichiatra). E senza aver paura di dirlo, anche molto triste ed amaro. Sono film in cui il senso vitalistico, seppure cinico, delle sue opere del decennio precedente, lascia il passo alla consapevolezza della fine, della morte come momento ineludibile, e fors’anche necessario, della nostra esistenza. In quest’ottica, “Primo amore” rappresenta la summa teoretica di questa nuova esigenza narrativa di Risi. Ambientato in una casa di riposo per artisti in pensione, racconta la volontà del’anziano attore di varietà Ugo Cremonesi, in arte Picchio (uno stratosferico Ugo Tognazzi), di non arrendersi all’inevitabile sorte di tutti. Conosciuta la giovanissima e bella cameriera dell’istituto, Renata (Ornella Muti), egli proverà a rilanciarsi nell’arte, “usando” anche l’avvenenza della giovane nel cercare di convincere impresari sempre più improvvisati. Il varietà però è ormai morto, mentre stanno per nascere le tv private, anch’esse non prive di miserie umane e di personaggi senza scrupoli. Immerso in una Milano nebbiosa e fredda, ancora lontana dai luccichii del decennio successivo, il film è una spietata ricognizione delle illusioni destinate a diventare umilianti e inevitabili delusioni. Picchio vedrà frantumarsi il suo sogno di (ri)nascita quando capirà che la giovane Renata a tutto è destinata tranne che a fare da spalla ad un uomo ormai vecchio e, irrimediabilmente, fuori da un mondo che ormai non gli appartiene più. Il cinismo del Risi precedente si trasforma qui in lucida spietatezza. La sua cinepresa riesce a cogliere, come in un quadro in movimento, l’impercettibile e disperata presa di coscienza di un anziano che tenta di divincolarsi dalle pagine di un libro già scritto. Risi non dimentica la lezione de “L’angelo azzurro” di Von Sternberg, come pure non manca di evocare, qua e là, anche “Il posto delle fragole” di Bergman, ma il suo racconto riesce, se è possibile, ad essere ancora più indigeribile, laddove la figura di Picchio incarna l’essenza stessa della disperazione dinnanzi all’imminente e definitiva solitudine. L’impossibile amore per Renata lo dimensiona come lontano da ogni speranza e le mille luci dello spettacolo fanno da simbolico contraltare a quelle fioche, definitive e ultime della casa di riposo. Il passaggio è brusco, il calcolo del tempo non torna, eppure è lì, implacabile. Picchio ritornerà al suo destino. Tutto è stato fatto, ma era soltanto un’apparenza, il piano di evasione dalla gabbia dell’esistenza non ha funzionato perchè non c’era mai stata via di fuga.
Fairytale-Una fiaba, di Aleksandr Sokurov, Russia, 2022.
Aleksandr Sokurov è così giunto alla magia cinematografica, realizzata mettendo insieme immagini vere con altre da lui elaborate. Le figure di Mussolini, Hitler e Stalin, immersi in un indefinito, barocco ed inquietante non luogo, “colorato” di un espressionista bianco e nero, in attesa di essere ricevuti da Dio, rappresentano il Potere assoluto, la sua metafora, che produce vittime innocenti in tempi di conflitti di massa, genialmente e dolorosamente messe in scena da Sokurov dentro un incessante movimento fluttuante, capace di moltiplicare all’ infinito corpi destinati alla distruzione. Per questo la Storia è vista, anche e soprattutto, come l’occasione per parlare dell’Uomo, del suo delirio di onnipotenza, delle sue miserie, delle sue bassezze, e della Pietas che, inevitabilmente, come uomini questi personaggi suscitano quando fanno emergere quel dato dell’umano che essi stessi hanno distrutto facendosi del male e, soprattutto, procurandone ferocemente al prossimo loro simile. In questo senso, la figura di Churchill diventa la cartina di tornasole dell’impossibilità per la creatura umana di allontanarsene, quando si trova costretta a viverci accanto, pur agendo per il bene. E l’immagine di Cristo, veicolata in una estetica tutta dreyeriana, ancora sofferente, in attesa anche Lui di essere ricevuto da Suo Padre, rimarca all’ennesima potenza la triste verità che relega la nostra esistenza dentro l’inscindibile binomio freudiano di Bene e Male, nonostante il sacrificio, sempre presente a noi uomini, da Egli compiuto per liberarci da questa condizione.