Fra i motivi per indignarsi, in questa stagione in cui ne compare uno al giorno, ci sono persino le tracce assegnate alla Maturità. Passi per la vecchiezza complessiva dei temi proposti, passi per la continua accentuazione del nazionalismo, in una sorta di rivendicazione identitaria che pone in secondo piano l’afflato internazionale che ebbe lo stesso Risorgimento, passi per la continua riproposizione dell’analisi del testo, ossia della tecnocrazia applicata alla scuola e alla scrittura, in una pervicace esaltazione della logica delle crocette che rende impossibile la formazione di un pensiero critico, passi tutto questo, anche se è pessimo, ma l’attacco all’ex ministro Bianchi no, non è ammissibile. Di Bianchi, che peraltro quando era ministro abbiamo spesso criticato, ci importa poco. La dignità della persona e la verità dei fatti devono prevalere sempre e comunque, pertanto gli esprimiamo la nostra convinta solidarietà, ma non è questo il punto. Il punto è il testo della traccia proposta a ragazze e ragazzi: “Gentile Ministro Bianchi, a quanto abbiamo letto, Lei sarebbe orientato a riproporre un esame di maturità senza gli scritti come lo scorso anno, quando molti degli stessi studenti, interpellati dai giornali, l’hanno giudicato più o meno una burletta. Nonostante i problemi causati dalla pandemia, per far svolgere gli scritti in sicurezza a fine anno molte aule sono libere per ospitare piccoli gruppi di candidati. E che l’esame debba essere una verifica seria e impegnativa è nell’interesse di tutti. In quello dei ragazzi – per cui deve costituire anche una porta d’ingresso nell’età adulta – perché li spinge a esercitarsi e a studiare, anche affrontando quel tanto di ansia che conferma l’importanza di questo passaggio. Solo così potranno uscirne con soddisfazione. È nell’interesse della collettività, alla quale è doveroso garantire che la promozione corrisponda a una reale preparazione. Infine la scuola, che delle promozioni si assume la responsabilità, riacquisterebbe un po’ di quella credibilità che ha perso proprio scegliendo la via dell’indulgenza a compenso della sua frequente inadeguatezza nel formare culturalmente e umanamente le nuove generazioni”.
Mi sono domandato a lungo, stamattina, quale traccia avrei scelto e sono giunto alla conclusione che avrei svolto proprio questa. E in un passaggio avrei risposto così a questo illustre appello: “Cari promotori del cattivismo, voi parlate di “via dell’indulgenza”, lasciando intendere che la scuola italiana non bocci più, non sia più sufficientemente severa, non selezioni più e non compia più discriminazioni fra chi viene da famiglie agiate e chi viene dal basso. Ebbene, sappiate che tutto questo è falso. Oltretutto, voi proponete una divisione sociale che se non fosse pericolosa sarebbe grottesca, adombrando per giunta l’ipotesi che la scuola non formi più, non fornisca più le conoscenze adeguate e non consenta più lo sviluppo di una coscienza civica adeguata. Ebbene, se questo in parte accade, e purtroppo accade, sappiate che è soprattutto colpa di persone come voi. A me non interessa difendere questo o quel ministro, non di una distinzione politica si tratta, considerando anche che fra destra e sinistra hanno fatto a gara a peggiorare la scuola in ogni singolo aspetto, ma di difendere la dignità di una generazione che ha vissuto sulla propria pelle non solo la pandemia ma tutta l’incertezza di una fase storica senza precedenti. Non è nel mio costume parlare in termini generazionali, ma voi appartenete senza dubbio a coloro che hanno conosciuto l’età della speranza, quando l’uomo sbarcava sulla luna e tutto sembrava possibile. Noi apparteniamo, invece, alla generazione che è vissuta e vive tuttora in una fase storica che il sociologo francese Edgar Morin ha definito della “policrisi”. Dall’estate del 2001, quando fra Genova e le Torri Grmelle di New York l’Occidente ha smarrito ogni certezza, non c’è stato un solo giorno di normalità nelle nostre vite. Siamo nati sotto il segno dell’incertezza, del declino, della perdita di punti di riferimento. Abbiamo dovuto convivere con molteplici crisi: dal collasso della Lehman Brothers, con conseguente crac bancario a livello globale, al disastro della Grecia; senza dimenticare le file di pensionati ai bancomat di Atene, i rischi che ha corso l’Euro, il risorgere dei nazionalismi in ogni paese del Vecchio Continente e, infine, la pandemia e la guerra in Ucraina. Questo è il mondo che ci avete lasciato in eredità, questo è il mondo in cui siamo chiamati a costruire noi stessi e questa è la realtà che contestiamo e continueremo a contestare, accampandoci con le tende davanti alle università, ricordando che il merito inteso come clava contro i più deboli non ha nulla a che spartire con l’articolo 34 della Costituzione e non smettendo di appassionarci alla politica nel suo senso più alto e nobile, quello che voi vorreste farci perdere per sempre. Sappiate che fallirete. E sappiate anche che questo non è uno sfogo ideologico ma un omaggio a don Lorenzo Milani, in occasione del centesimo anniversario della sua nascita. So bene, infatti, che il problema degli altri è uguale al mio, che sortirne insieme è la politica e sortirne da soli è l’avarizia. Sono quarant’anni che quelli come voi ripetono che “l’avidità è un valore”, che non esiste la società ma solo gli individui e che dobbiamo pensare a noi stessi e non preoccuparci degli altri, ma qui si torna a don Milani, all'”I care”, mi riguarda, in nome di un’altra di idea di scuola, di cultura, di comunità, di conoscenza e di sapere. Ecco, io non ho molte aspettative per il futuro della mia generazione, sono sincero, ma un auspicio intendo comunque esprimerlo: vorrei vivere in un Paese in cui sui banchi di scuola si imparasse a prendersi cura del prossimo, a cominciare dai più deboli, a non lasciare indietro nessuno, a essere non indulgenti ma giusti e a valorizzare la conoscenza non per esaltare questo o quell’esecutivo e il suo operato ma per tenerlo sotto controllo, nel caso della cittadinanza attiva, e per dare il meglio di sé, nel caso di chi si occupa di politica in prima persona e ha dunque il dovere, in base all’articolo 54, di “adempiere con disciplina ed onore” al proprio compito”.
Non so quanto avrei preso scrivendo queste riflessioni: temo poco, dati i tempi che stiamo vivendo. Tuttavia, mi auguro di cuore che almeno uno studente o una studentessa abbia avuto il coraggio di esprimere concetti simili, e sono abbastanza convinto che da qualche parte sia avvenuto. Perché questa generazione di maturandi non è perfetta, tutt’altro, magari sta un po’ troppo sui social, d’accordo, ma ha dei valori, degli ideali e una visione della società che, dall’ambiente ai diritti, condivido pienamente.
Infine, un piccolo omaggio a una persona che se lo merita. L’esame “burletta”, come l’hanno definito i soloni di cui sopra, lo introdusse la ministra Azzolina per far fronte alla tragedia del Covid. Bei tempi quando a viale Trastevere c’era una persona che si preoccupava del benessere di ragazze e ragazzi, della loro vita dentro e fuori la scuola e del loro domani, contrastando la logica dell’esclusione e della crudeltà gratuita e fine a se stessa che impera al governo da una trentina d’anni, senza alcuna eccezione fra gli schieramenti. Una, a dire il vero, c’è stata e ha pagato un prezzo altissimo per le sue scelte. Ma il mondo della scuola, che ha la memoria lunga, queste cose le sa, a cominciare proprio dai giovani.