Mentre proseguono nel silenzio generale dei media mainstream le uccisioni sommarie di centinaia
di civili palestinesi, come quella del piccolo Tamimi di soli due anni, le demolizioni e le confische
di case e terre palestinesi, le aggressioni dei coloni e tanto altro, abbiamo deciso di intervistare la
Relatrice speciale ONU sulla situazione dei diritti umani nel Territorio palestinese occupato : la
dottoressa Francesca Albanese, accademica, giurista specializzata in diritti umani e diritto
internazionale e, in passato, funzionaria alle Nazioni Unite nel settore dei diritto umanitario.
Il ruolo di Relatore/Relatrice speciale Onu è un incarico – gratuito – affidato ad una figura esperta,
indipendente dalle Nazioni Unite, nominata dal Consiglio per i diritti umani. Il compito di chi
svolge questo ruolo è di indagare, monitorare e riferire all’Onu su questioni relative ai diritti umani
e loro eventuali violazioni, fornire consulenze sulla cooperazione tecnica e svolgere attività di
sensibilizzazione in generale.
Francesca Albanese è la prima donna a ricoprire quest’incarico in oltre trent’anni di esistenza del
mandato ed ha presentato il suo primo rapporto all’Assemblea Generale dell’Onu lo scorso mese di
ottobre, avente a tema il diritto all’autodeterminazione del popolo palestinese violato da 56 anni di
occupazione israeliana e conseguente apartheid nel Territorio palestinese occupato (Cisgiordania,
Gerusalemme est e Striscia di Gaza). Un rapporto inattaccabile per la solidità delle analisi fattuale
e giuridica, che le ha meritato non poche critiche e il tentativo di delegittimazione con la più
indegna e strumentale accusa: quella di antisemitismo. Questo per aver denunciato l’operato di
Israele nel Territorio palestinese occupato (la presenza delle autorità palestinesi non cambia ne’ di
fatto ne’ di diritto le responsabilità di Israele come potenza occupante).
Ed infatti dopo la presentazione del suo rapporto era stata chiesta la sua rimozione dall’incarico
appena assunto visto che 9 anni fa, nel 2014, aveva esposto il suo pensiero su uno dei più feroci
bombardamenti israeliani contro la popolazione di Gaza criticando Europa e USA che non facevano
nulla per fermare il massacro e avviare un serio negoziato di pace.
Difficile cogliere in quella critica tracce di antisemitismo, ma tanto è bastato a chi sa gestire come
bavaglio un’accusa tanto strumentale, per cercare di tacitarla. Una tattica che spesso funziona ma
con Francesca Albanese non ha funzionato e il suo coraggioso rapporto, seppur non ha abbattuto il
ciclopico muro che garantisce l’impunità israeliana, ha creato più di una breccia in quel muro, fatto
di silenzio mediatico sui crimini “di routine” e rinforzato dalla narrazione dei fatti nella sola
versione israeliana.
Dottoressa Albanese, la presentazione del suo primo rapporto all’Assemblea Generale Onu
sulla situazione nel Territorio palestinese occupato ha dato luogo ad attacchi violenti che sono
andati ben oltre il legittimo diritto di critica, configurandosi in veri e propri insulti,
addirittura accompagnati da richieste di destituzione dal suo incarico. Cosa risponde ai
tentativi di delegittimazione del suo ruolo e del suo coraggioso lavoro avanzati dai supporter
italiani di Israele?
Premetto che non mi sento una voce fuori dal coro in termini assoluti perché sono tanti a
denunciare le politiche e le pratiche d’Israele nella Palestina occupata: attivisti, accademici,
professionisti, intellettuali ma anche tanta gente comune. Probabilmente quello che mi rende fuori
dal coro nella percezione collettiva è il fatto che io cerchi di fare chiarezza utilizzando
rigorosamente il dettato normativo, non facilmente attaccabile sulla sostanza, ma anche tenendo
conto del contesto storico di cui 56 anni di occupazione militare fanno parte, all’interno delle
Nazioni Unite. Questa visibilità è temuta da chi cerca di affossare la prospettiva dei diritti dei
palestinesi, negati da decenni, in nome della sicurezza israeliana. Da tempo Israele confonde la sua
sicurezza con la sicurezza del suo piano di annessione del territorio occupato (assolutamente
proibita dal diritto internazionale), che persegue da decenni a danno dei palestinesi. Io questo
continuo ad osservarlo e lo denuncio candidamente. Non avrei nessuna difficoltà a confrontarmi
con i miei detrattori, ma non succede perché non potendo difendere nel merito di ciò che io
denuncio, ci si concentra a distruggere la reputazione del mio mandato e della mia persona.
Questo non è affatto una novità per il ruolo che ricopro: chi mi ha preceduto, e tra questi
soprattutto Richard Falk e Michael Link, ha subito gli stessi attacchi. Inoltre, l’aver scelto di essere
una voce udibile anche al di fuori del mondo degli addetti ai lavori delle Nazioni Unite (in seno
all’Assemblea Generale e il Consiglio dei Diritti Umani), mi ha reso più visibile in ambito
mediatico e dunque maggiormente attaccabile. Ma l’obiettivo è chiaro. Ledere la mia credibilità e
quella del mio mandato, è un tentativo per deflettere l’attenzione dal merito del mio lavoro.
Va però detto che in questo mio primo anno di mandato, ad ogni attacco contro di me è corrisposta
una mobilitazione di solidarietà nei miei confronti senza precedenti, sostenuta da voci
autorevolissime, incluse tante personalità del mondo ebraico. Questo mi incoraggia a continuare a
fare il mio lavoro in modo obiettivo e trasparente, dando importanza alle critiche di merito e
ignorando quelle di sicofanti e di pseudo-intellettuali dalla doppia morale.
Critiche che certamente si rinfocoleranno alla presentazione del suo secondo rapporto il
quale, suppongo, non sarà meno esplicito e, per così dire, meno urticante del primo visto che i
crimini e le violazioni del diritto internazionale proseguono impunemente . Tra quanto verrà
pubblicato? Può darci qualche anticipazione sul contenuto?
Il mio secondo rapporto si concentra sulla privazione della libertà personale nel territorio
palestinese occupato. Quindi su ciò che porta ad arresti e detenzioni di palestinesi principalmente,
ma non esclusivamente per mano delle forze israeliane. In questo studio ho esaminato 56 anni di
ordini militari e pratiche volte ad arresti, trasferimenti, interrogatori e detenzioni di palestinesi, il
tutto supportato da decenni di inchieste di organizzazioni palestinesi, israeliane e internazionali.
Scrivere questo rapporto ha comportato ricerche lunghe mesi, revisione di centinaia di ordini
militari e studi redatti da esperti e avvocati palestinesi e israeliani impegnati a difendere palestinesi,
spesso bambini, nelle corti militari israeliane.
L’inchiesta si è concentrata tanto sulla dimensione che definisco “micro”, non in senso riduttivo
ma perché relativa a singoli casi, tanto su una dimensione più ampia che chiamo di carceralità
diffusa, e quindi “macro” in cui confluiscono tutti i casi singoli. In seguito alle mie indagini posso
dire che ci sono diversi livelli di violazioni. Il primo è il livello di violazione dei diritti della persona
nel momento in cui la si arresta e la si detiene e perché la si arresta e la si detiene. Ci sono pratiche
arbitrarie, e l’elemento dell’arbitrarietà è amplificato dai volumi, dal numero delle persone
coinvolte, dagli arresti di massa. Pensiamo alle centinaia di migliaia di arrestati durante 56 anni di
occupazione militare e legge marziale, che, ripeto, opera al di fuori di ciò che è permesso dal
diritto internazionale. Tra il 1967 e il 2006 Israele ha arrestato 800.000 palestinesi; pur essendo
questa una cifra altissima se rapportata al numero di palestinesi del Territorio occupato (attualmente
circa 5 milioni), è comunque una stima riduttiva perché, ad esempio, non prende in considerazione
tutte le persone che sono state arrestate più di una volta. Inoltre, in 20 anni sono stati incarcerati
circa 10.000 bambini, l’orrore cui sono sottoposti merita un discorso a parte. Sono numeri
importanti su una popolazione numericamente così piccola di cui la metà, a Gaza, vive sotto il
blocco israeliano da 17 anni, in una condizione di incarcerazione/punizione collettiva.
Sebbene sia chiaro che i Palestinesi, come tutti, possano commettere dei crimini e a volte anche
efferati, la mia inchiesta ha rivelato che il sistema normativo, fatto di leggi d’emergenza risalenti al
1945 (cioè al periodo mandatario precedente alla creazione dello Stato di Israele, ndr) e migliaia
di ordini militari, vaghi e confusi, è votato alla vera e propria repressione del popolo palestinese
sotto occupazione e alla criminalizzazione di condotte prive della materialità dell’offesa.
In questo modo vengono spesso sanzionati l’esercizio di libertà individuali e di diritti fondamentali
protetti dall’ordinamento internazionale, come la libertà d’espressione e la libertà di associazione.
si pensi ad esempio che raduni di dieci o più persone in cui si discute di argomenti politici, o anche
una processione, possono essere puniti con 10 anni di prigione se non autorizzati dall’esercito.
Israele ha recepito le “emergency laws” britanniche di ottanta anni fa che avrebbero dovuto essere
provvisorie e d’emergenza. La demolizione delle case come forma di punizione collettiva è
un’eredità del mandato britannico, infatti un ordine del 1945 prevedeva la demolizione
dell’abitazione di chi avesse condotto reati contro l’autorità mandataria. Tale regime normativo –
dove ‘le leggi’ sono scritte, applicate e riviste in sede giudiziaria dall’esercito, ‘uno e trino’ come
ben descrive il collega Luigi Daniele – si applica solo ed esclusivamente ai Palestinesi sotto
occupazione. Ai civili israeliani che vivono illegalmente nel territorio occupato – i coloni – si
applica la legge (giurisdizione civile) dello Stato d’Israele. Questo dualismo legale è uno degli
elementi evidenti del sistema di apartheid che Israele pratica nei confronti dei palestinesi (cioè un
sistema di violazioni gravi condotte con l’intento di un gruppo di dominare su di un altro).
Inoltre, il mio studio rivela che l’arbitrarietà della privazione della libertà personale a cui i
palestinesi sono costretti va ben oltre il carcere e spesso dura fin dopo la morte. Si pensi alla diffusa
pratica di Israele di ‘detenere’ i corpi di persone decedute in carcere o durante operazioni militari.
Le salme, trattenute dall’esercito israeliano e non restituite alle famiglie in violazione del diritto
internazionale, vengono tenute in celle frigorifere in condizioni inadeguate che spesso portano al
loro ulteriore deterioramento. Quando finalmente le salme vengono restituite, ai familiari vengono
spesso imposte condizioni draconiane che impediscono la sepoltura se non in ore notturne e senza
funerali.
Il mio rapporto fa anche luce su vere e proprie forme di ‘carceralità diffusa’, forme di confinamento
fisico imposte da Israele nel territorio palestinese occupato: è proprio tutto il “sistema
occupazione” che prevede barriere fisiche, barriere burocratiche, e una sorveglianza controllo
digitale estremamente capillare e che trasforma tutta la Palestina occupata in una prigione a cielo
aperto. Non è un’iperbole, è la realtà.
La letteratura esistente dimostra chiaramente come la carceralità diffusa sia tipica del colonialismo
d’insediamento. Nel territorio palestinese occupato, non in modo dissimile da altre forme di
occupazione coloniale, queste forme di controllo sono andate via via cristallizzandosi come modo
per controllare la popolazione talvolta prevenendo l’incarcerazione vera e propria in prigioni
israeliane che, tuttavia, seguitano a riempirsi di prigionieri palestinesi.
Grazie per queste interessanti, e tristi, anticipazioni. Passando ora ad un recente atto di
teppismo che ha visto prendere di mira le chiese cristiane in Cisgiordania, vorrei farle una
domanda circa i nostri operatori mediatici. Premesso che all’indifferenza di fronte alla
violazione delle moschee ci siamo abituati, era difficile aspettarsi altrettanta indifferenza di
fronte all’assalto alle chiese cristiane con statue e immagini sacre prese a martellate da
teppisti provenienti dalle colonie illegali senza che le autorità israeliane prendessero
provvedimenti . Perché, secondo lei, i nostri media, mentre gridano all’odio antisemita se un
teppista danneggia una sinagoga, coprono questi crimini lasciando che l’opinione pubblica
seguiti a ritenere Israele uno Stato democratico? Qual è il motivo di questo doppio standard?
Si tratta di autocensura generalizzata per motivi difficilmente indagabili, o di un preciso
diktat censorio imposto dall’alto?
Il diritto internazionale sostiene in modo adamantino il diritto all’autodeterminazione del
popolo palestinese, e quindi la libertà dal giogo dell’occupazione più lunga della storia
contemporanea e dall’apartheid. Tale diritto, come ho spiegato nel mio primo rapporto, è un diritto
inviolabile. Circa i silenzi mediatici, io penso ci sia un misto di censura e autocensura, una sorta di
ostracismo forse dovuto alla paura di essere accusati di antisemitismo o di “sostenere il terrorismo”.
Queste sono le accuse generalmente mosse da personalità e gruppi che proteggono ad oltranza le
pratiche del governo d’Israele. Questo è in contrasto con il diritto d’informazione.
In Italia tutto questo ha portato ad un forte cambiamento nell’atmosfera sociale che ha reso la gente
meno informata sulla questione israelo-palestinese al contrario di quanto accadeva trent’anni fa.
L’occupazione israeliana e il suo intento coloniale, a quell’epoca erano noti, narrati e compresi
dalla politica come dal largo pubblico. Nel tempo la questione è stata derubricata dal discorso
politico, contribuendo ad una sorta di avvizzimento del sentimento collettivo, distaccandosi tanto
dai fatti quanto da un’analisi giuridica della situazione. Rispetto ad altri paesi noto anche che in
Italia persino il linguaggio di coloro che si attivano per la ‘causa palestinese’ risulta talvolta
eccessivamente politicizzato e non inclusivo, riflesso di una militanza un po’ vecchia e sconnessa
dalla questione dei diritti umani del popolo palestinese. Per esempio, colgo talvolta un’esagerata
partigianeria che spesso si riscontra in ambienti presuntamente “filopalestinesi”. L’estremo è non
pronunciare il termine ‘Stato di Israele’, visto come tabù; questo atteggiamento è estraneo al
lavoro di tanti palestinesi tanto sotto occupazione che nella diaspora, e non aiuta ad amplificare la
loro voce, ma l’annulla sostituendosi ad essa.
Io credo fortemente che lo smantellamento di una società coloniale e dell’apartheid passi per il
riconoscimento dell’altro, soprattutto di quegli elementi all’interno della società dell’altro che sono
pronti a lavorare assieme per una società equa e giusta. Ispirandosi alle parole di Primo Levi, nel
momento in cui il nemico riconosce il suo errore già non è più nemico, quindi, in questo caso, si
deve tener conto di quanto la società israeliana vada accompagnata nella decostruzione del sistema
che ha messo in piedi. Questo è necessario e la comunità internazionale potrebbe fare da
tramite. Non ci si può aspettare che siano i palestinesi discriminati o sotto occupazione a farsi carico
da soli della costruzione di ponti con la società israeliana che adesso li domina e non li riconosce
come portatori di diritti e meritevoli di protezione. La comunità internazionale dovrebbe ospitare un
dibattito che riconosca ai palestinesi una sorta di posizione di primus inter pares nel debellare il
colonialismo d’insediamento e costruire una società diversa, quale che sia la forma di stato che li
vedrà cittadini. Questo è un altro punto centrale. In Italia la questione politica de “due Stati per
due popoli” è vista come centrale mentre per i palestinesi la battaglia non è più o non tanto solo
politica ma è una battaglia per il riconoscimento dei diritti umani, che potrebbero realizzarsi in uno
Stato palestinese ma senza il quale (visto che uno Stato esiste ma in cattività) i diritti civili, politici,
economici e culturali dei palestinesi, e il loro inalienabile diritto all’autodeterminazione, devono
comunque essere realizzati.
Quindi, mettendo insieme il comportamento mediatico, quello politico generale e quello
militante, emerge un quadro che non sembra fornire elementi utili per il riconoscimento dei
diritti spettanti al popolo palestinese.
Gli ostacoli sono tanti ma così anche le opportunità, i valori in cui tanta gente ancora crede e
che è forza vitale per cambiare. Si pensi alla vasta mobilitazione che si sta formando contro
l’apartheid praticata contro i palestinesi, fatta di un tessuto globale variegato generazionalmente,
socialmente e politicamente. E questa coalescenza per la legalità e la giustizia è necessaria anche a
livello istituzionale, altrimenti non avrebbe senso l’esistenza del Consiglio per i diritti umani delle
Nazioni Unite, il cui compito è promuovere l’adempimento alle norme internazionali sui diritti
umani.
Vorrei però porre l’accento su due fenomeni che caratterizzano (e ostacolano) il dibattito
soprattutto nel mondo occidentale. Uno è quello che io chiamo violenza epistemologica, il modo in
cui si può commettere violenza attraverso la narrazione e, quindi, attraverso la formazione della
conoscenza e la sua trasmissione. Questo è un fenomeno comune nella stampa occidentale e
italiana, dove si è progressivamente imposto attraverso un modo viziato di veicolare conoscenza e
comprensione di accadimenti della realtà attuale per la definizione di una politica informata dai fatti
e sostenuta dal rispetto della legalità. Questo potrebbe essere tra le cause che favoriscono il clima di
pregiudizio che accoglie qualsiasi disamina della situazione nel territorio palestinese che Israele
occupa militarmente e colonizza dal 1967. Il secondo punto di riflessione che vorrei sollevare è il
razzismo antipalestinese, che è un sotto-capitolo dell’islamofobia diffusasi dopo l’11 settembre
e che silenzia, esclude, cancella, stereotipa, diffama o deumanizza i palestinesi o le loro narrazioni
(in quanto palestinesi e per tanto viste come ‘anti-israeliane’). Tale forma di razzismo ha cambiato
la percezione dell’ingiustizia che vive il popolo palestinese. Mentre 40 anni fa ai palestinesi, anche
quando compivano atti che potevano ammontare a crimini internazionali, veniva riconosciuto il
diritto alla resistenza come movimento di liberazione nazionale, oggi si trovano in una situazione
diametralmente opposta. Prendo a esempio il caso dell’organizzazione non governativa Al Haq,
operativa da vari decenni nel campo dei diritti umani e riconosciuta dal Consiglio economico e
sociale dell’ONU, oggi accusata da Israele, assieme ad altre organizzazioni per i diritti umani, di
‘terrorismo’. Quest’accusa è stata acriticamente estesa dalla stampa e da alcuni politici
italiani anche al suo direttore generale, Shawan Jabarin, in occasione di una sua audizione presso il
nostro Parlamento. Jabarin, è un’icona della difesa dei diritti umani e della giustizia per i
palestinesi, per anni perseguitato con detenzioni giudicate arbitrarie e illegali dalle Nazioni Unite.
Sulla base di cosa, se non ignoranza e mancanza di senso della misura, gli sono state mosse simili
accuse? In quell’occasione mi sono personalmente vergognata dei miei connazionali. Il fatto che
questa vicenda – come tante altre – non si narri, non si discuta, e non si chiarisca il motivo
dell’accusa infondata, ma si lasci percepire quest’ultima come vera, rientra in una forma di
manipolazione dell’informazione, di violenza epistemologica, di razzismo antipalestinese. Su
questo tema, connesso alla strumentalizzazione delle accuse di antisemitismo, ho intenzione di
scrivere un rapporto durante il mio mandato.
In base a quanto previsto dal suo incarico circa il “fornire consulenze sulla cooperazione
tecnica…” quali suggerimenti darebbe al nostro Paese, oltre che alle Nazioni Unite, per
fermare questa deriva criminosa che vede il popolo palestinese vittima di un’ingiustizia
legalizzata e per costringere Israele a entrare nell’alveo della legalità internazionale che fino
ad oggi ha sempre calpestato?
Credo che sia necessaria un’opera di ricognizione per capire cosa stia effettivamente succedendo
nel territorio palestinese occupato. Questo richiede un atto di grande onestà intellettuale e di ritorno
al dettato del diritto internazionale, spesso dismesso in nome “dell’amicizia con lo Stato d’Israele”.
Bisogna prendere coscienza del fatto che le pratiche d’Israele sono largamente in violazione del
diritto internazionale e possono costituire crimini di guerra e contro l’umanità.
Credo che l’Italia abbia l’obbligo di muoversi nel rispetto della legalità internazionale senza doppi
standard. Non si può pensare di aiutare il popolo palestinese solo attraverso l’azione umanitaria,
perché il problema è politico e investe lo stesso ruolo dell’Onu, che viene svilita dinanzi alle azioni
illegali di Israele e alla sua impunità. Bisogna riportare Israele nell’alveo della legalità, per cui è
necessario riconoscere che lo Stato di Israele viola il diritto internazionale da decenni, non
conformandosi a regole minime che la comunità internazionale si è data per garantire pace e
stabilità. Quindi vanno prese le misure necessarie, offerte dalla Carta delle Nazioni Unite, anche di
natura coercitiva, come misure diplomatiche politiche ed economiche, per ricondurre Israele al
rispetto della legalità internazionale. D’altro canto ciò è stato fatto nei confronti della Russia
quando ha aggredito l’Ucraina. Non si spiega perché a Israele non venga imposto lo stesso
trattamento vista l’occupazione che mantiene da 56 anni, equiparabile anch’essa ad un’aggressione.
E insisto su questo, bisogna abbandonare l’ottica del conflitto perché non si tratta di una guerra tra
due Stati ma di un’occupazione illegale da parte di uno Stato che vuole colonizzare terre e risorse di
un altro.
Non si può assecondare un regime che si è evoluto in forma di apartheid, retto dall’idea di
mantenere una demografia sbilanciata a favore della parte ebraica della popolazione presente tra il
Mediterraneo ed il fiume Giordano. L’apartheid è una conseguenza naturale, un elemento
connaturato al dominio che Israele mantiene illegalmente sul territorio occupato impedendo la
realizzazione del diritto all’autodeterminazione del popolo sotto occupazione. Quindi, a coloro che
nei vari parlamenti, oltre che in Italia, coprono la realtà seguitando a parlare di due Stati per due
popoli suggerirei di riflettere sulla viabilità di uno Stato che è completamente assoggettato e
controllato da un altro. Oggi lo Stato palestinese appare come un arcipelago di zone al più con
un’autonomia ridotta o controllata. Ritengo che sia urgente chiedere la fine dell’occupazione come
conditio sine qua non per qualsiasi negoziato, perché non si può imporre al popolo colonizzato di
negoziare le condizioni della propria liberazione col popolo colonizzante che, peraltro, non ha
alcuna intenzione di frenare le proprie ambizioni di conquista territoriale.
Movimenti come il BDS (boicottaggio, disinvestimento e sanzioni ndr) avversato fino ad essere
impropriamente considerato una forma di antisemitismo, possono dare una spinta verso il
riconoscimento dei diritti del popolo palestinese?
Il BDS è un movimento iniziato da palestinesi che investe oggi la società civile globale, e che
chiede l’applicazione del diritto internazionale, senza eccezioni e senza doppi standard. Che vi si
aderisca o meno, che lo si sostenga o meno, non può essere condannato come antisemita solo
perché’ rivendica il rispetto della legalità internazionale da parte dello Stato di Israele. Il BDS
insiste su una questione validissima: le colonie sono un crimine di guerra. Nessuno stato dovrebbe
commerciare con le colonie, indipendentemente dal movimento BDS.
Gli accordi di Oslo, o meglio l’inganno di Oslo, ha favorito l’avanzamento del progetto
israeliano creando vincoli all’Autorità nazionale palestinese che tuttora sussistono
Gli accordi di Oslo non possono interpretarsi come validi se in violazione del diritto
internazionale. Il diritto all’autodeterminazione è una norma perentoria del diritto internazionale
(inviolabile) e che impone obblighi positivi per ogni stato membro della comunità internazionale.
Quindi bisogna interrogarsi sulla validità di un accordo che dopo 30 anni dimostri la sua inefficacia
di fronte a questa norma inderogabile.
I movimenti anti Netanyahu degli ultimi mesi, che rivendicano il rispetto della democrazia
(ma ai quali partecipano anche elementi come Tzipi Livni che ricordiamo per il massacro di
“piombo fuso”) possono incidere sulla situazione palestinese o rientrano in un quadro
esclusivamente interno a Israele?
No, io penso che quella sia proprio la cartina al tornasole del suprematismo israeliano nel senso
che sembrano essere in pochi a chiedersi dove siano e come vivano i palestinesi. Se la democrazia,
come democrazia sostanziale, si evince da come si trattano le minoranze, non possiamo che trarre
da questo un’unica conclusione. Sia i palestinesi con cittadinanza israeliana, ma soprattutto i
palestinesi da 56 anni sotto occupazione militare in Cisgiordania, Gerusalemme e Gaza, sono
invisibili all’occhio dell’israeliano medio (non dei pochissimi che hanno chiaro il problema e che
sono da sempre invisi ai governi israeliani). Il dialogo con gli Israeliani è necessario per quanto
anche loro siano intrappolati dal sistema coloniale. Ne sono anche loro inconsapevolmente vittime,
ma chiaramente, con una responsabilità, sofferenza ed una capacità di influenzare il cambiamento,
completamente diverse. Quindi la mia risposta è che i movimenti di piazza ‘anti-Netanyahu’ non
incidono per ora sulla questione palestinese. E, qualunque cosa accada, verso Israele seguita ad
esserci un atteggiamento di totale laisser faire laisser passer che lo abilita, che addirittura lo
coadiuva nelle violazioni che commette in totale impunità
La ringrazio per il tempo che ci ha dedicato e, a proposito di laisser faire laisser passer, le
faccio un’ultima domanda e cioè, secondo lei, questa complicità si può davvero attribuire,
almeno in parte, al senso di colpa dell’Europa per la terribile tragedia della Shoah?
Forse, in parte. Ma se fosse vero non si spiegherebbe l’antisemitismo che ancora oggi
vergognosamente esiste in Europa, assieme ad altre forme di razzismo e xenofobia.
Credo che siano però soprattutto interessi politici, economici e commerciali ad influenzare le scelte
dei nostri paesi, tristemente a danno dei palestinesi. A testimonianza di questo, vorrei ricordare che
già nel 1986 Joe Biden, l’attuale Presidente degli Stati Uniti, disse “Se non ci fosse uno Stato
d’Israele, gli Stati Uniti avrebbero dovuto inventarlo per proteggere i nostri interessi nella
regione”.
In conclusione possiamo dire che c’è un grande lavoro da fare, e tutto in salita. E non solo per la
Palestina.