A coloro che, in parlamento e nel governo, spingono per una revisione delle norme in materia di tortura con l’obiettivo, neanche mascherato, di abolirle, la cronaca dà contro.
A Verona, infatti, sono sotto indagine un ispettore e quattro agenti di polizia per azioni criminali che non si possono non definire tortura (eventualmente, con l’aggravante dell’odio razziale) nei confronti di persone, per lo più stranieri, sottoposti alla loro custodia. Indagato è un numero maggiore di persone che avrebbero cercato di coprire le torture.
Sembra di essere tornati alla caserma di Bolzaneto, 22 anni fa. Agli indagati si contestano comportamenti “gravemente lesivi della dignità delle persone”. Una formula giuridicamente corretta ma che proviamo a tradurre così: usare persone come strofinacci per asciugare la propria urina, vanterie sui pugni assestati sul volto di persone inermi, competizioni a chi picchiava di più.
Nel 2001, in Italia, c’era chi sosteneva la necessità di una norma sulla tortura: non per vietarla, ma per regolamentarla, date le sfide inedite del periodo post-11 settembre. Ventidue anni dopo, ecco da Verona la conferma che la tortura non serve (non è mai servita né servirà mai) a fini di sicurezza ma solo per esibire potere, verso chi ne è privo. Per esprimere odio, con la copertura di una divisa. Per annichilire, umiliare.
Da Verona arrivano, dunque, due lezioni: il reato di tortura deve restare in vigore per punire chi si macchia di uno dei più gravi crimini internazionali, e la storia delle indagini di questi ultimi anni ci dice che non si tratta di “mele marce”; ma anche per tutelare la maggior parte degli operatori delle forze di polizia, compresi coloro che hanno contribuito agli sviluppi dell’indagine in corso. Non ci sono solo “mele marce” ma Verona dimostra che non c’è, almeno ancora, un “sistema marcio”.
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