È impossibile parlare del patron di Arcore senza raccontarne la spericolata ascesa nel mondo televisivo.
In principio fu un’emittente via cavo, legato ad un complesso abitativo costruito dall’imprenditore Berlusconi, che comprese al volo come –dopo la sentenza n.202 del 1976 della Corte costituzionale liberalizzatrice del settore in ambito locale- si fosse aperto un parziale vuoto normativo in cui infilarsi.
Si chiamava Telemilano 58, presto divenuta televisione diffusa sulle onde hertziane, contribuendo ad aprire un Far West mai davvero regolato. Anzi. La legge n.10 del 1985 convertì i decreti varati ad personam (inaugurando un metodo) da Bettino Craxi allora Presidente del consiglio. L’ansia di espandersi senza limiti aveva fatto sì, infatti, che tre pretori oscurassero le trasmissioni perché -con un accorgimento tecnico- trasmettevano in una simil-diretta.
In verità, però, persino la legge congegnata a misura del tycoon non fu attuata. Fu l’allora sottosegretario di Palazzo Chigi Giuliano Amato a interpretare il termine di sei mesi apposti nella disciplina per la conclusione del presunto periodo transitorio come meramente ordinatorio. Ciò, naturalmente, contribuì, data l’autorevolezza dell’autore, a scrivere la storia successiva.
Il giro di boa fu la legge n.223 del 1990 dell’exministro Mammì, che legittimò definitivamente la concentrazione del piccolo schermo. Da allora l’ascesa divenne travolgente, accompagnata dalla esplicita benevolenza dei partiti del Caf (il pentapartito) e dalle debolezze di una sinistra a lungo inconsapevole.
Ci fu il generoso tentativo del referendum sul numero dei canali e sugli spot del 1995 (si poteva persino vincere, ma prevalsero dubbi e contrarietà in nome di una pax televisiva coltivata dietro le quinte. Il resto fu costituito da ipotesi di ridimensionamento in nome di una doverosa cultura antitrust: le reti di Rai e Fininvest-Mediaset dovevano scendere da tre a due, ma accadde l’inverosimile. E Retequattro, che sarebbe entrata nella stagione della distribuzione satellitare lasciando le frequenze terrestri ad altri competitori, rimase imperterrita sulla scena. Del resto, era un ghiotto attrattore di investimenti pubblicitari (Berlusconi intuì che vi era un ampio margine di raccolta tra imprenditori disillusi dalla Rai) e un momento quotidiano di propaganda grazie al giornale-cabaret di Emilio Fede.
Tuttavia, la svolta nella salita al cielo dei potenti del settore avvenne quando nel 1981 Canale5, l’ammiraglia del gruppo, riuscì a prevalere sulla Rai acquisendo i diritti per il Mundialito, un torneo calcistico internazionale di qualche rilievo.
Televisione, editoria (vedi Il Giornale, ceduto al fratello), sport e spettacolo sono un tutt’uno con la politica. Se mai, primo tra i populisti italiani moderni, comprese come i vecchi riti partitici erano sulla via del tramonto. Un mutamento profondo di approcci e linguaggi, in base ai desideri delle parti meno socializzate del paese prive di rappresentanza, invadeva gli immaginari collettivi. Con ingegnosa malizia commerciale i palinsesti si riempivano di programmi leggerissimi, occhieggianti ai lati meno nobili del pubblico, volti all’intrattenimento fondato sull’elogio della perizia e dell’astuzia individuali.
Insomma, parliamo del berlusconismo. Non è (vive ancora eccome, avendo egemonizzato quasi per intero la comunicazione generalista ) un fenomeno laterale o minore. Si tratta di un pezzo della cultura di massa che ha spiazzato tante sospirate superiorità intellettuali.
È un tratto esecrabile e sgradevole: da non esorcizzare, però. Non si spiegherebbe il successo di ascolto dei canali di Cologno Monzese e, ancor meno, si comprenderebbe l’origine non occasionale di Forza Italia. Con Berlusconi la politica assurse a mediaticità e quest’ultima calcò direttamente (senza mediazioni) la scena pubblica.
Sulle fortune così veloci della sua accumulazioneproprietaria ci sono fiumi di letteratura: dalla P2, agli intrecci discutibili con certi mondi (quante inchieste della magistratura sui presunti intrecci con la mafia), all’utilizzo di appoggi favoritiquando la «discesa in campo» nel 1993-94 rispondeva all’urgenza di frenare un rischio di vittoria delle sinistre. Barabba vince sempre, con gli editti bulgari e i conflitti di interesse.
Ai margini di un dibattito, alla presenza di Confalonieri (il suo storico doppio) alla domanda «Come capisce se un programma funziona?», rispose «Semplice. Se piace a Fedele non va, se non gli piace ha successo».
Per lui le battute e le barzellette, per non dire delle famose cene eleganti, erano una delle facce di una vita di potere, per il potere, non banale.