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Un decreto per mettere le mani sulla Rai: pessimo il fine, peggiore il mezzo

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Il decreto-legge varato dal consiglio dei ministri dello scorso giovedì per epurare l’amministratore delegato della Rai Fuortes è un caso di scuola. Tutto ciò che non si può fare, viene invece messo in atto con una protervia persino inedita. Come si sa, il ricorso alla decretazione d’urgenza è previsto in casistiche ben delimitate. E già sotto tale profilo il testo in questione desta sospetti di dubbia costituzionalità.

Tuttavia, il merito va al di là di ogni più fosca previsione. Nell’età berlusconiana fioccavano provvedimenti ad personam e allora politica e televisione appartenevano ad uno stesso universo. Il mandato era di tutelare ad ogni costo gli interessi di Mediaset e di tenere sotto controllo la Rai.

Adesso, dopo lunghi sospiri davanti al buco della serratura, il partito di Giorgia Meloni non vede l’ora di occupare le postazioni del servizio pubblico. L’azienda radiotelevisiva rappresenta una sorta di desiderio proibito per tanta parte del ceto politico, soprattutto per una destra che ha la sindrome del cugino di campagna. In verità, la statistica offerta dalle tabelle sui minutaggi delle presenze in video, Fratelli d’Italia e Governo sono già ampiamente serviti. Ma l’occupazione in atto non è, ovviamente, solo quella dei tempi e degli spazi, bensì la ghiotta conquista degli scranni.

Si vorrebbe, verosimilmente, cambiare l’identità della principale azienda culturale italiana (che dio ci protegga), nonché –soprattutto- apparati e organigrammi. Sono settimane che si scrivono i nomi dell’attuale direttore della radio Roberto Sergio come nuovo amministratore delegato e di Giampaolo Rossi ex consigliere di amministrazione e dirigente.

Ciò che rende, però, il decreto un passo di selvatica virulenza è il combinato disposto tra ad personam e contra personam. Per il prossimo vertice e contro il sovrintendente della fondazione San Carlo di Napoli Stephane Lissner. Il cuore del provvedimento è comprensibile se si conosce il sottotesto: Carlo Fuortes a Napoli e Lissner in pensione, avendo compiuto 70 anni, il limite previsto per quell’incarico. Lissner ha annunciato ricorsi e polemiche: chissà mai che riesca ad ottenere in tribunale le sue ragioni. Tra l’altro, si tratta di un cittadino francese ed è opinabile che un decreto possa agire così su di lui.

Comunque, rimane senza risposta una banale domanda. C’è un precedente, è vero. Antonio Campo Dall’Orto, assurto al vertice nel 2015 se ne andò nel giugno del 2017: sfiduciato, però, in base al comma 11 dell’articolo 2 della (pessima) leggina n.220 del dicembre 2015 voluta dall’allora presidente del consiglio Matteo Renzi. Sarebbe stata trasparente, dunque, una procedura corretta e rispettosa della legge anche nell’attuale situazione.

Insomma, è un pasticciaccio bruttissimo, figlio delle logiche peggiori del potere, cui spesso sfuggono i confini della legalità. Il fine è pessimo, ma il mezzo è ancora peggiore.

A questo punto, non resta che rimettere seriamene nell’agenda delle priorità la questione della Rai, relegata alla marginalità dai riflettori delle istituzioni.

Che sia almeno la volta buona per una lotta delle opposizioni unite in Parlamento, bocciando il decreto nell’atto della conversione. Le opposizioni politiche si saldino all’iniziativa annunciata dalle organizzazioni sindacali e dai movimenti che da tempo invocano una riforma della Rai capace di svincolare il servizio pubblico dagli appetiti di partiti, lobby economiche, circoli privati e salotti.

Infine, va sottolineata l’altra faccia della medaglia di un decreto autoritario tipico di un regime. Sembra di essere in Polonia o in Ungheria, dove la libertà e l’autonomia dell’informazione sono stracciate da disposizioni autoritarie. Il risvolto del decreto illumina la scena governativa, mostrando con evidenza la miscela di incompetenza e di debolezza strategica: una destra senza qualità.

Una stecca del genere compromette l’intera opera, per rimanere in tema.


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