Alcuni accademici, che avevano perso il proprio lavoro per via delle “purghe” avviate durante lo stato di emergenza introdotto nel paese col tentativo di colpo di stato del 2016, hanno potuto di recente far rientro in università. L’atmosfera in Turchia in attesa del ballottaggio per le presidenziali
Non tutte le ingiustizie sono per sempre. Mentre il futuro politico della Turchia è ancora incerto, col ballottaggio presidenziale che si svolgerà questa domenica fra il presidente uscente Erdoğan e lo sfidante repubblicano Kılıçdaroğlu, c’è chi una piccola “vittoria” sembra averla già ottenuta: alcuni accademici, che avevano perso il proprio lavoro per via delle “purghe” avviate durante lo stato di emergenza introdotto nel paese in seguito al tentativo di colpo di stato del 2016, hanno potuto di recente far rientro in università e uscire così da una condizione di “morte civile” che gli era stata imposta dalla repressione statale.
«In Turchia, se sei un intellettuale con un profilo pubblico diventi automaticamente un problema sociale», afferma il docente di diritto costituzionale Dinçer Demirkent – che è stato riammesso all’università di Ankara lo scorso marzo dopo quasi cinque anni di sospensione. «In generale ti è concesso di fare ricerca liberamente, anche su temi sensibili come la questione curda o i diritti Lgbt. Ma se ti esprimi e lotti per i tuoi diritti, ecco che il governo ce l’avrà con te».
Licenziamenti d’emergenza
Il biennio del 2015-16 costituisce senza dubbio uno spartiacque nella storia della Turchia moderna, e non solo per il tentativo di colpo di stato per cui il governo a guida Akp ha accusato l’organizzazione religiosa di Fethullah Gülen (“ribattezzata” come sigla terroristica con l’appellativo di “Fetö”). Le ore convulse e sanguinose del “15 luglio” furono infatti precedute da un periodo altrettanto violento e confuso, con numerosi attentati in alcune delle maggiori città del paese, la chiusura definitiva del processo di trattativa avviato fra lo stato e la guerriglia armata del Pkk e la ripresa di un conflitto “caldo” nelle regioni dell’est a maggioranza curda.
È in quest’occasione che circa duemila accademici firmarono un “Appello per la pace”, in cui si chiedeva appunto di affrontare la tensione in Kurdistan attraverso il dialogo e non con l’uso della forza.
Circa un anno dopo almeno quattrocento di loro perdevano il proprio posto di lavoro, oltre a subire il ritiro del passaporto e l’interdizione dai pubblici uffici. «Ci siamo visti cancellare qualsiasi diritto civile, politico e costituzionale», continua a raccontare Dinçer Demirkent. «Il tentativo di golpe è stato utilizzato da Erdoğan per accusare ogni oppositore. Le università sono state ridotte sostanzialmente al silenzio».
Non solo le università: con l’introduzione dello stato di emergenza nel paese (che è durato fino al 2018), si sono verificati 150mila licenziamenti e rimozioni dagli incarichi fra militari e funzionari pubblici (all’incirca il 10% dei circa due milioni di impiegati nel settore pubblico), 80mila persone fermate e detenute di cui oltre 8mila in seguito incarcerate nonché la chiusura di numerose scuole, centri di educazione, canali di comunicazione, ecc.
Un processo che ha profondamente inciso nella società e nella vita politica della Turchia, segnando di fatto l’inizio di una nuova fase del potere dell’Akp sempre più simile alla “dittatura di un uomo solo” (evoluzione peraltro suggellata dalla trasformazione della forma di governo in una repubblica presidenziale con il referendum del 2017).
«Nel nostro paese ci sono un centinaio di facoltà di Giurisprudenza, ma non ce n’è stata una che negli anni scorsi abbia organizzato una conferenza o un dibattito sullo stato di emergenza e sulle sue implicazione per il sistema di diritto», annota Demirkent. «Questo ti dà la misura di quanto siano stretti gli spazi per la libertà d’espressione e quanto sia forte l’autocensura».
Il fatto è che non è facile reagire a un licenziamento di stato con tutto lo stigma che, oltre alle difficoltà economiche e sociali, una cosa del genere porta con sé. Se alcune persone non hanno smesso di lottare o di sperare in un cambiamento, altre sono semplicemente fuggite dal paese. Altre ancora non hanno retto alla pressione psicologica e alle mutate condizioni di vita e si sono suicidate: l’ultima in ordine di tempo è stata l’accademica dell’università di Samsun Fehmiye Çelenk, quarantaquattrenne madre di tre figli, che lo scorso marzo si è impiccata presso la propria abitazione. «Dopo il crudele licenziamento che ha subito, non è riuscita ad affrontare il vortice della depressione», ha affermato – dandone notizia sui propri canali social – il rappresentante dello Yeşil Sol Parti Ömer Faruk Gergerlioğlu (una delle poche figure politiche che negli ultimi anni si è impegnata nella solidarietà con le vittime delle “purghe”).
Dal 2016 a oggi si tratta della settantottesima persona che, in seguito alla perdita del lavoro (suo o di un famigliare) per via dei decreti presidenziali, ha scelto di porre fine alla propria vita. Lo rivela fra le altre cose anche una pubblicazione curata e diffusa in maniera indipendente da Rafet Irmak e Aziz Yıldırım, anch’essi licenziati durante lo stato d’emergenza, che appunto raccoglie tutti i casi di questo tipo.
«Con l’interdizione per i pubblici uffici, sei costretto a cercare un impiego nel settore privato in cui comunque sussistono molti ostacoli e pregiudizi nei tuoi confronti», conferma Demirkent. «Anche ora che ho fatto ritorno in università, sono oggetto di mobbing e non ho ancora potuto riprendere l’insegnamento vero e proprio». A questo, è bene non dimenticarlo, si aggiungono anche morti e suicidi in prigione, che sono decine ogni anno e sulle cui sorti è lecito supporre incida anche il forte aumento della popolazione carceraria (dal 2011 al 2021, si è verificato un incremento dell’89%).
L’importanza della solidarietà
Perciò la solidarietà collettiva e l’unione delle forze diventa fondamentale. Dinçer Demirkent, per esempio, ha potuto contare sul sostegno di un sindacato universitario che offre anche un aiuto economico a chi viene licenziato. Inoltre, nel periodo in cui è stato allontanato dalla sua professione, sì è impegnato assieme ad altri docenti nel progetto delle “Scuole di diritti umani” che intende indagare le ripercussioni dello stato di emergenza e dell’autoritarismo governativo nel campo della ricerca e della libertà accademica.
«Il mio caso rimane comunque appeso a un filo», conclude, spiegando come sia riuscito a riottenere il proprio posto di lavoro solo dopo numerosi ricorsi in diverse sedi giudiziarie e come l’iter legale non sia ancora giunto al termine. In più, sul futuro peserà anche il risultato delle elezioni: «Se dovesse vincere Erdoğan mi aspetto chiaramente che la repressione si intensifichi, soprattutto per quanto riguarda le strutture di sostegno come i sindacati, mentre con Kılıçdaroğlu è probabile che otterremo maggiori strumenti per far rispettare i nostri diritti. Ma, al di là del ballottaggio, già è stato eletto uno dei parlamenti più a destra degli ultimi anni. In ogni caso, dunque, la nostra battaglia continua».