La Somalia resta un puzzle di difficile soluzione, dove ogni pezzo fatica a trovare quello giusto per l’incastro. E non potrebbe essere diversamente dopo 32 anni di violenta instabilità politica (preceduti da altri 5 anni di rivolte contro il presidente dell’epoca Siad Barre) causata dalla guerra civile degenerata infine nel terrorismo diffuso.
Obbligatorio quindi il bilancio del primo anno di presidenza di Hassan Mohamud, rieletto per un secondo mandato (dopo il primo svolto dal 2012 al 2017) nel maggio scorso alla guida del paese. Il presidente deve innanzitutto fronteggiare una crisi alimentare catastrofica con 7 milioni di somali che necessitano di assistenza umanitaria, oggi fortemente compromessa dal dirottamento delle risorse degli organismi internazionali verso la popolazione ucraina. La mancanza di fonti d’acqua ha seccato pascoli e bruciato campi agricoli. Milioni di capi di bestiame sono morti per la siccità che dura da anni. Gli effetti dei cambiamenti climatici favoriscono la conflittualità tra i gruppi sociali: contadini contro pastori per il controllo delle scarsissime fonti d’acqua e delle terre migliori per agricoltura e pascolo. Una guerra tra poveri che favorisce il radicamento dei terroristi islamisti grazie alla distribuzione di cibo e denaro che spalancano così le porte all’arruolamento dei giovani a cui viene assicurata la “paga del soldato”. Ai disperati abitanti di queste aree depresse non resta che dedicarsi alla produzione del carbone di legna che produce desertificazione accelerando l’impatto dei cambiamenti climatici. Il “pizzo” imposto sul trasporto e la commercializzazione del carbone costituisce una voce importante del bilancio finanziario dei terroristi, grazie anche a ben remunerate complicità di amministrazioni locali e di una parte del contingente kenyano dell’Amisom (la missione militare di stabilizzazione politica dell’Unione Africana), secondo la denuncia delle Nazioni Unite.
Il terrorismo islamista è dunque la “madre” di tutte le emergenze. I militanti di al-Shabaab (articolazione somala di Al-Qaeda) sono riusciti a penetrare in profondità nella vita politica, economica e tra le forze governative di sicurezza, colmando i vuoti lasciati dallo stato ed erogando servizi alla popolazione delle aree sotto il loro controllo. La meticolosa precisione degli spettacolari attentati (in forte ripresa) evidenzia la grande mole di informazioni a cui hanno accesso grazie alle capacità di infiltrazione nell’intelligence governativa. Strategie di infiltrazione che hanno analoghe conferme anche tra i “fratelli” di terrore di Boko Haram in Nigeria.
Secondo calcoli delle Nazioni Unite, il bilancio finanziario complessivo degli al-Shabaab ha raggiunto lo scorso anno i 288 milioni di dollari. Un oceano di denaro che arriva a destinazione in parte grazie a normali operazioni bancarie di trasferimento dall’estero di cifre inferiori ai 10 mila dollari destinati ad insospettabili prestanome per dribblare segnalazioni degli organismi dell’antiriciclaggio e antiterrorismo. Ma le restrizioni bancarie varate nel 2016 non hanno prodotto fino ad oggi risultati tangibili. Così come non stanno avendo successo le sanzioni varate dal governo di Mogadiscio nei confronti di aziende e cittadini che pagano balzelli ai terroristi su proprietà immobiliari, costruzioni, commercio, imposizioni di pedaggio per i traffici su strada. Anzi gli al-Shabaab riescono addirittura a riscuotere i diritti di dogana sulle importazioni che transitano nel porto di Mogadiscio, sotto il controllo governativo. Solo queste attività garantiscono entrate mensili per 15 milioni di dollari al mese. Le uscite invece includono 24 milioni di dollari all’anno per armi e munizioni, 12 milioni in stipendi, e finanziamenti destinati a gruppi affiliati nel continente africano.
Gli Shabaab offrono quei servizi che lo stato centrale non può offrire, come l’amministrazione della giustizia. I cittadini si rivolgono infatti alle Corti islamiche per la risoluzione di controversie, evitando i tribunali statali in cui burocrazia, costi eccessivi e corruzione la fanno da padrone.
Il presidente Hassan Mohamud ha inaugurato una nuova strategia per contrastare il terrorismo, affiancando i clan a reparti dell’esercito per combattere sul campo gli Shabaab, che avrebbero nelle loro file tra i 5 ed i 10 mila militanti. Insomma lo stato somalo sta demandando alle milizie claniche il monopolio dell’uso della forza per garantire la propria stabilità. Ma questa strategia darà più forza ad alcuni clan a scapito di altri, che stanno già infoltendo invece i ranghi dei terroristi, creando delle disparità di trattamento. Senza contare che la distribuzione delle armi è benzina sul fuoco.
E così i terroristi continueranno ad espandersi.
Pubblicato sulla rivista mensile CONFRONTI n.5 maggio 2023