“I lavoratori, senza distinzione di opinioni politiche, sindacali e di fede religiosa, hanno diritto, nei luoghi dove prestano la loro opera, di manifestare liberamente il proprio pensiero, nel rispetto dei principi della Costituzione e delle norme della presente legge.”
Se si chiedesse alle prime dieci persone che si incontrano per strada a quale testo appartengano queste parole, da quante si otterrebbe una risposta esatta? Non intendo fare una scommessa in proposito ma credo che, nella migliore delle ipotesi, ben poche saprebbero rispondere.
La frase è il testo dell’articolo 1 della legge 20 maggio 1970, meglio nota come Statuto dei lavoratori. Lo Statuto fu il risultato di una stagione straordinaria segnata da fortissime lotte sindacali così come dall’azione di uomini straordinari come il ministro del Lavoro Giacomo Brodolini – padre anche, con la sua riforma delle pensioni, del sistema a ripartizione e dell’abolizione delle gabbie salariali che discriminavano i lavoratori delle regioni più povere – e del giuslavorista Gino Giugni. Brodolini, va ricordato, morì prematuramente e lo Statuto fu condotto in porto dal suo successore Carlo Donat-Cattin.
Lo Statuto dei Lavoratori introdusse, di fatto, la libertà costituzionale nei luoghi di lavoro. Affermando la libertà di espressione dei lavoratori e proibendo, attraverso l’articolo 18, i licenziamenti discriminatori che, fino ad allora, erano stati utilizzati per colpire coloro che si impegnavano nell’attività sindacale. E, insieme a queste, altre importanti tutele. In seguito, fu destrutturato malamente, in particolare con il complesso di normative note come Jobs Act.
Il 20 di maggio sono passati 53 anni dalla promulgazione di quella che si può considerare una delle normative più importanti della storia repubblicana. E con una tragica perversione del destino, in quella stessa data, 24 anni fa, fu assassinato dall’ultima, misera frangia delle Brigate Rosse un giuslavorista amico del lavoro e dei lavoratori come Massimo D’Antona. La stessa che tre anni più tardi avrebbe colpito a morte il suo collega Marco Biagi.
Mi permetto dunque, qui, di porre un tema. Compulsando le pagine dei giornali del 20 maggio scorso – il panorama è il medesimo anche per l’informazione non di carta – non ho trovato quasi traccia dell’anniversario dello Statuto. Eccezion fatta per una riflessione del neo-presidente dello Cnel, Renato Brunetta, bella quanto rilevante.
Mi interrogo perciò sul ruolo, diciamo da un punto di vista che si potrebbe definire di “pedagogia civile” che il giornalismo italiano potrebbe, invece, svolgere. Intendiamoci: molti giornalisti informano con precisione sulle pagine economiche in merito alle questioni del lavoro. Ma non posso non ripensare con una certa nostalgia a quelle pagine che andavano sotto l’etichetta redazionale di “economia e sindacato” sui giornali del passato. Una rappresentazione dei temi del Lavoro non necessariamente partigiana, schierata, ma approfondita e precisa.
Scrive Brunetta, “quello del lavoro (del buon lavoro!) è tra i temi più urgenti per il Paese […] e deve essere centrale nelle politiche di ripresa post pandemica e di costruzione dell’Italia che vogliamo lasciare ai nostri figli”.
Il ruolo del lavoro giornalistico per far emergere con precisone e completezza il complesso panorama di questo argomento nel discorso pubblico nel Paese è fondamentale. È un contributo allo sviluppo democratico dell’Italia che, è giusto augurarselo, dovrebbe trovare nuovo vigore, affinché tutti possano partecipare, disponendo di un’informazione completa, a una nuova stagione di sviluppo nella giustizia sociale.