Pensi che la pace sia meglio della guerra, che bisognerebbe parlare di tutte le guerre, salvare le vite di tutti i civili ovunque? Non puoi nasconderti dietro un dito: sei diventato uno sporco putiniano anche se fra te e il Dio Patria e Famiglia di Putin c’è un abisso. Ritieni che Assange vada liberato perché ha fatto solo conoscere al mondo la faccia oscura e brutale dei conflitti che hanno devastato il pianeta negli ultimi decenni? Peggio che peggio: sei un nemico dell’Occidente, una quinta colonna del nemico.
Si ragiona così in questa Italia degli anni 20 del ventunesimo secolo. La libertà di espressione non pare gradita, se il tuo pensiero non è in linea, vieni ridicolizzato, isolato, emarginato, comunque ti rendono la vita difficile.
In questo contesto ci salveranno gli algoritmi, le nuove frontiere dell’innovazione? Non pensiate che la domanda sia poi così lontana da quanto detto finora. In gioco ci sono sempre, su piani diversi ma convergenti, la nostra libertà e il nostro futuro.
Ieri c’è stata al Congresso di Washington una audizione importante, quella di Sam Altman l’amministratore delegato di OpenAI la compagnia di ChatGpt il sistema di linguaggio intelligente capace di interloquire con gli umani che ha suscitato un enorme dibattito pure da noi. E cosa ha detto Altman, dirigente di una azienda privata che ha investito miliardi di dollari negli “algoritmi capaci di apprendere”? Ha chiesto ai rappresentanti del popolo americano di istituire un sistema di regolamentazione e controllo pubblico su queste tecnologie perché i rischi che scappino di mano sono enormi. E quali sono questi rischi? Ne indico qui solo uno fra i tantissimi, quello che possano assumere un potere di controllo e indirizzo delle informazioni, del lavoro, della sorveglianza e dunque del futuro dell’umanità. I congressisti ( lì le audizioni sono una cosa seria) hanno ascoltato, i più preparati hanno però osservato che non bastano le “buone intenzioni” se poi le aziende trovano cento modi per eludere le indicazioni che vengono da enti certificatori, se non rallentano la loro “folle corsa” verso strumenti che loro stesse non controllano. Insomma l’allarme è stato lanciato, la soluzione del problema appare però ancora assolutamente lontana.
Cosa ci insegna questa vicenda? In primo luogo che non ha nessun senso dividerci fra tecnofobici e tecnoentusiasti. C’è poi però un passaggio fondamentale da cogliere. Siamo in un momento storico di transizione talmente veloce in cui può accadere che un rappresentante di una compagnia privata (la più innovativa) chieda al pubblico ( allo Stato) di intervenire, di svolgere un ruolo di indirizzo per il bene della comunità. Questo perché l’informazione nel senso più ampio della parola è un bene pubblico.
Calate questa vicenda nel soffocante quadro italiano di cui si parlava all’inizio, dove il sistema pubblico (non solo la Rai, ma in primo luogo istruzione e sanità) è invece irriso, minacciato, occupato, svuotato, impoverito e vedrete come tante cose risultino “magicamente” interconnesse. L’orizzonte della libertà è sempre strettamente collegato al pensiero critico e alla tutela degli interessi e dei diritti della comunità umana contro ogni prevaricazione e arroganza. Qualunque sia il tema di cui parliamo.