“Hic Rhodus, hic salta”, stavolta più che mai. E la nostra Rodi è la Costituzione, il bene comune che da decenni viene vilipeso, aggredito, messo pesantemente in discussione, umiliato e sottoposto a costanti tentativi di sfregio che per fortuna, finora, siamo riusciti a sventare. Si cominciò a parlare di grandi riforme e simili all’inizio degli anni Ottanta, quando la classe dirigente del dopo-Moro, incapace di riformare se stessa, cominciò a scaricare sulla Costituzione il proprio fallimento. Si è andati avanti nei decenni successivi, fra bicamerali, strappi, forzature, canguri e violenze verbali d’ogni genere, fino a giungere a oggi, con un Parlamento tagliato e ridotto a una sorta di organo consultivo, esautorato nei fatti e privo di rappresentanza agli occhi dei cittadini, in quanto composto da nominati a partire dal Porcellum del 2005. A proposito del merito, altro pallino dell’attuale esecutivo, ci teniamo a ricordare che il suo artefice, l’indimenticabile Calderoli, è tuttora ministro, a dimostrazione che anche il ricambio della classe dirigente è senz’altro il loro forte! Ebbene, lasciando da parte l’ironia, francamente inopportuna in un contesto così drammatico, bisogna analizzare da vicino ciò che sta accadendo.
Il presidenzialismo, o in seconda battuta il premierato, non è il punto d’arrivo ma il punto di partenza di questo governo e del comune sentire di coloro che lo sostengono, e con ogni evidenza non ci riferiamo alla cittadinanza. Diciamo che il presidenzialismo è un meccanismo troppo complicato perché possa realizzarsi, e questo probabilmente lo sanno anche dalle parti della maggioranza. Il premierato, invece, si è capito che troverebbe sponde pure in almeno una delle opposizioni, in nome della governabilità da ottenere a ogni costo, mettendo in conto anche una spaccatura del Paese che potrebbe esporci, a lungo andare, a episodi come quelli cui abbiamo assistito a Capitol Hill, a Planalto o nelle strade e nelle piazze francesi in rivolta contro la riforma previdenziale di Macron. Nel caso di Stati Uniti e Brasile molto c’entrano anche le provocazioni di due leader che tutto sono fuorché statisti; il caso francese, invece, evidenzia i rischi cui si espone un paese quando le istituzioni perdono la capacità di ascoltare ciò che si muove al suo interno, in nome di un metodo di governo che ricorda tanto il “noi tireremo dritto” di triste memoria. Non funziona, non ha mai funzionato, non funzionerà mai. Non funziona perché genera malessere, non funziona perché non contiene le tensioni ma, anzi, le fa esplodere, non funziona perché genera un’opposizione forsennata che può anche essere repressa con metodi polizieschi, di cui in Italia abbiamo una discreta esperienza, ma non fa altro che alimentare movimenti xenofobi, partiti fascisti e soggetti che mettono a repentaglio la tenuta stessa del tessuto democratico, un tempo considerato il vanto dell’Occidente.
Senza contare che, come in passato, questa riforma costituzionale si accompagna ad altre riforme di contorno che, tuttavia, devono essere inscritte in un contesto più ampio. Scuola, RAI, lavoro e relazioni sociali e sindacali nel loro insieme sono i punti cardine di questo progetto, e qui ci sono due opzioni: l’estensione dei diritti e delle possibilità delle persone o la loro compressione. L’esaltazione del capo, la visione gerarchica, la riduzione degli spazi concessi alle minoranze, gli strappi continui, la scuola intesa non più come luogo di formazione di una coscienza civica e critica ma come antipasto di un’esistenza senza la possibilità effettiva di esercitare i diritti sanciti dall’articolo 21 della Costituizone e la scomparsa sostanziale di quello che dovrebbe essere il tempio della democrazia ma purtroppo, da tanti anni ormai, non lo è più: questa sembra essere la direzione verso cui ci stiamo avviando a livello globale, in nome di teorie egemoniche che vengono da lontano e mirano a smantellare ciò che rimane delle conquiste democratiche compiute nel dopoguerra.
E allora, senza furori di sorta, lo diciamo con chiarezza: di fronte a questo pacchetto, o si sta da una parte o si sta dall’altra. O si sta con la Costituzione di Calamandrei o si sta con la sua nuova versione, firmata dai novelli padri costituenti. O si sta con l’idea che il servizio pubblico sia un patrimonio collettivo o si aderisce alla visione di chi lo vorrebbe trasformare in un megafono del potere di turno. O si pensa che la scuola, sempre per citare Calanandrei, sia l’unica istituzione in grado di “trasformare i sudditi in cittadini” o si accetta la sua versione aziendale, in cui il merito è inteso come darwinismo sociale e la valutazione serve a scrollarsi rapidamente di dosso chi ha avuto la sfortuna di nascere indietro. Qui non si tratta più neanche di destra e sinistra ma di democrazia contrapposta a ciò che democrazia potrebbe non essere più, come abbiamo già modo di vedere nei luoghi di lavoro, in cui troppo spesso si muore e tutele e garanzie stanno diventando una chimera.
Gli schieramenti, alle prossime elezioni, dipenderanno dalle posizioni assunte oggi, dal tavolo cui ci si siede e al fianco di chi. Non c’è spazio per ambiguità, tentennamenti e per l’attendismo di chi aspetta sempre di vedere da che parte tira il vento prima di schierarsi. Stavolta bisogna assumersi le proprie responsabilità. Comunque vada, e credo di poter parlare a nome dell’intera comunità di Articolo 21, noi non vogliamo avere il rimpianto di non aver provato a opporci allo sfacelo che si prospetta. Perché una volta che ci saremo giocati tutto, vivremo in una democrazia apparente, con una partecipazione elettorale bassissima, chiunque sia al governo.
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