Morire per raccontare è una colpa? È la domanda che dovremmo farci oggi. C’è chi, per quella “colpa” è morto. E poi infangato, mascariato. Perché persino la memoria doveva essere dannata. È il caso di tanti, troppi.
Tra questi c’è certamente Peppino Impastato. Lui che ha infiammato tante generazioni, sin da subito però fu definito come un “terrorista”. E non (solo) da chi ne voleva rovinare l’immagine, da quel “Tano seduto” (alias il capomafia di Cinisi, Tano Badalamenti) che chiaramente ne aveva interesse. Fosse stato lui sarebbe stato un criminale, ma senza traditori.
Ed invece no. I traditori ci furono anche in questo caso. Traditori, troppi. Pezzi infedeli dello stato (con la “s” minuscola) che avrebbero dovuto fare giustizia, dare giustizia alla famiglia di Peppino, alla madre Felicia, al fratello Giovanni, ai suoi amici. Ma niente. No, nulla di tutto questo.
Nel mio libro (Traditori – Edito Solferino, appunto!) racconto (anche) la storia di Peppino perché – come leggerete se vorrete – si intreccia con quella del presidente Aldo Moro e non solo nella sconcertante concomitanza: quella del 9 maggio 1978. In quel giorno Moro e Impastato furono fatti ritrovare morti.
Di Impastato si disse che fosse un terrorista, si simulò un attentato terroristico. Si fece di tutto per distruggerne l’immagine.
Depistaggi, fango. Tutto quello che serviva, durante e dopo, per dimostrare che la vittima (Peppino) fosse un delinquente.
Se oggi c’è giustizia e verità è merito (innanzitutto) della madre Felicia, della sua famiglia e dei suoi amici e compagni.
Per Peppino, per Giovanni Spampinato, per Giancarlo Siani, per Pippo Fava, Cosimo Cristina, Mauro De Mauro, Mario Francese, Mauro Rostagno. Ma anche per Ilaria Alpi e Milan Hrovatin, Giulio Regeni, Andy Rocchelli, Italo Toni e Graziella De Palo. Loro, morti senza giustizia.
Per tutte le giornaliste di ieri e di oggi che raccontano e ci rendono liberi.
“Perché la libertà è come l’aria: ci si accorge di quanto vale quando comincia a mancare”.