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L’umano Prometeo di Euripide a Siracusa. Troppo umano direbbe Nietzsche

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La magia dell’apertura delle 58° rappresentazioni classiche a Siracusa è quest’anno affidata a una tragedia di ardua rappresentazione, superstite di una trilogia, attribuita a Eschilo, il “Prometeo incatenato”. Eroe senza tempo, prima al fianco di Zeus, ora degli uomini, Prometeo, donatore del fuoco, incarna il toccante prototipo di chi sacrifica il proprio bene per il bene altrui, come fa un padre per i propri figli.

Il protagonista, che paga il suo nobile gesto con la cattività, è immobile, costretto in catene per un tempo infinito, mentre un’aquila gli divora dall’alba al tramonto il fegato, che si rigenererà nella notte per rinnovare il supplizio. La rappresentazione dell’opera è una grande sfida che ha raccolto il regista Leo Muscato, con Roberto Vecchioni che ne ha curato la traduzione.

Gli elementi che caratterizzano la scelta registica sono due. Il primo è l’interessante ed emblematica ambientazione scenica, senza tempo, strutturata come un lugubre e imponente apparato industriale desueto e decadente, fitto di piattaforme, ciminiere, attraversato da un binario su cui scorre un carrello che introduce o espelle i personaggi da una grande porta che separa lo spazio tecnologico dall’esterno, che evoca la decadenza della nostra civiltà, proiettandoci in una dissoluzione della Techne, di cui dobbiamo miticamente l’origine al Titano, qui semplicemente un uomo, il secondo elemento che caratterizza l’opera. Originale sul piano concettuale, ma debolmente supportato sul piano estetico Prometeo è Titano nel gesto che compie, ma non nel corpo; impietosito dal destino degli umani, “coloro che hanno breve luce”, ha donato il fuoco rapito agli dei pagandone il fio. Perseguitato da Zeus, che crudelmente lo fa incatenare tra scintille e improperi da Bia, da Kratos e dal riottoso Efesto a una rupe, qui una ciminiera metallica, Prometeo, un misurato Alessandro Albertin, in ceppi, solitario e decisamente lontano in fondo alla scena, dall’alto di sette metri, sancisce la sua ribellione all’ingiusta condanna, sfidando il potere di Zeus. In soccorso, mosse a pietà dalla sua misera condizione, accorrono le Oceanine, mentre il loro padre Oceano vorrebbe indurlo a piegarsi. Il dialogo tra le due divinità si conclude con l’uscita di scena di Oceano, impotente contro Zeus, mentre le figlie rimarranno accanto al prigioniero fino alla fine: lo consolano, lo consigliano, lo sostengono, ma non lo salvano dalla sua solitudine esistenziale. Nessuno può fare niente per lui, nessuno può schierarsi contro il padre degli dei. A interrompere il suo tormentato soliloquio irrompe Io, figlia di Inaco e futura madre di Epafo. La fanciulla, amante di Zeus sotto le forme di una giovenca, ha acceso la gelosia di Era che la trasforma in inquieta e disperata fanciulla dalle corna dorate, costretta a vagare per terra e per mare, perseguitata da un tafano che la punge dolorosamente. Zeus, dall’ambiguo profilo divino, non ha osato prendere le sue difese. Sfinita e straziata dalla fatica e resa pazza dal dolore, rivelata la ragione della sua triste condizione alle Oceanine, Io fugge, dopo aver ascoltato la premonizione del suo destino da Prometeo, che, mai domo, infine profetizza la fine del potere di Zeus, secondo i disegni di Crono, suscitando le ire del dio che farà intervenire Ermes per ricondurlo alla ragione. Inutilmente. La scena conclusiva con lo sprofondamento di Prometeo nelle viscere della terra, in un susseguirsi tellurico di fuoco, lampi, fragori, vede in questa tragedia l’affermazione del potere di Zeus. Le altre due tragedie che componevano la trilogia sono andate perdute e con esse la salvezza di Prometeo per mano di Eracle e il perdono di Zeus.

Questa affascinante contesa con il Potere nell’Ottocento ha fatto di Prometeo un eroe romantico, mentre in questa versione la sensibilità moderna ne sottolinea lo spirito di solidarietà, vagheggiato da Leopardi nella Ginestra, laico anticipatore. Atto protervo o sublime, il gesto di Prometeo, dio troppo umano, trascende il divino e lo avvolge di una fragilità latente.

Pensata e voluta in questa interessante direzione la tragedia, apprezzabile nell’intento esecutivo, tuttavia risente del mite e dimesso aspetto del Prometeo di Alessandro Albertin, e di un certo immobilismo scenico (persino l’aquila divoratrice è immobile sul carrello) che i minimalisti movimenti coreografici delle canterine Oceanine e le intemperanze, colorite dai suggestivi e bufalini grugniti della furibonda Io di Deniz Ozdogan, non riescono a intaccare se non in parte, addolcendo l’acme emotivo che la pietas negata poteva offrire, salva l’approvazione di un pubblico puntualmente plaudente, perché il suggestivo spettacolo delle tragedie a Siracusa, rito sacrale tra millenarie pietre, ha una sua ammaliante, titanica forza e bellezza

 

PROMETEO INCATENATO

di Eschilo

Traduzione Roberto Vecchioni

Regia Leo Muscato

Con Alessandro Albertin (Prometeo)  Silvia Valenti (Bia), Davide Paganini (Kratos), Michele Cipriani (Efesto), Alfonso Veneroso (Oceano), Deniz Ozdogan (Io), Pasquale di Filippo (Ermes)

Al Teatro Greco di Siracusa fino al 4 Giugn


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