La giornata mondiale dedicata alla libertà di informazione cade da trent’anni 3 maggio. Così fu sancito dalle Nazioni Unite nel 1993. Tuttavia, più che una festa celebriamo una tragedia. La guerra in Ucraina è solo l’ultimo e certamente abnorme caso in cui il doveroso diritto di cronaca è messo sotto attacco. Perché il giornalismo indipendente mette a rischio la vita. Anzi, il pericolo maggiore viene corso dai cosiddetti fixer, vale a dire coloro che, spesso giornalisti anche loro, accompagnano inviate ed inviati con l’esperienza scaturita dall’essere nativi o pratici dei luoghi del conflitto. È il caso tragico che piangiamo in queste ore di Bogdan Bitik, ucciso verosimilmente da cecchini russi mentre era al lavoro con Corrado Zunino de la Repubblica, quest’ultimo per fortuna ferito lievemente. Ciò che accade in Ucraina è terribile e, per associazione, ricorda il dramma di Andrea Rocchelli e Andrej Mironov falciati invece dal fuoco ucraino in Donbass nel 2014. Il tema dei fixer è scarsamente trattato, essendo essi a mala pena considerati professionisti alla stregua dei colleghi che supportano. Ma, si sa, le vite umane non sono tutte uguali e pure sotto il profilo contrattuale i fixer vagano spesso nel limbo. Articolo21 e la Federazione nazionale della stampa hanno posto in questi giorni la questione. E speriamo che il sacrificio di Bogdan Bitik serva a dare una scossa alle coscienze inerti. Del resto, il problema si pone in ogni zona bellica. È stato così in Afghanistan, ad esempio, quando l’esercito statunitense e gli alleati lasciarono improvvisamente il paese, abbandonando lì numerose figure operative, facili prede dei talebani. Insomma, che la Giornata dell’Onu sia l’occasione per risolvere qualcosa. I fantasmi degli innocenti si ribellano e tolgono il sonno ai cultori delle guerre. E non dimentichiamo che incombe il vulnus democratico di Julian Assange.
Reporters Without Borders segnalano che nel 2022 vi sono stati tra i giornalisti 58 morti, 533 incarcerati, 49 dispersi e 65 tenuti in ostaggio. Il numero sarà anche maggiore. Veniamo alle cose italiane. Qui, se non di omicidi, possiamo -però- parlare di crescenti minacce a chi cerca di svolgere senza abbassare la testa la propria attività di inchiesta, magari mettendo il naso in aree opache o nei traffici della criminalità. Per di più, alle minacce fisiche si unisce la pratica delle querele temerarie. Si tratta di un vero e proprio bavaglio preventivo, a suon di richieste di risarcimenti milionari. È un bavaglio in guanti bianchi. Se consideriamo che la professione è ormai in forte maggioranza rappresentata dal lavoro precario spesso schiavistico, senza tutele legali, ci rendiamo conto del pericolo incombente. Non per caso l’Italia è scesa al cinquantottesimo posto nella graduatoria mondiale sulla libertà di informazione. Tra minacce, querele e leggi mai fatte. La Rai è prossima ad un’invasione di ultracorpi in camicia scura, la raccolta pubblicitaria non va bene e del canone di abbonamento non c’è certezza. La televisione commerciale a trazione Mediaset fa il megafono in molta parte del palinsesto del governo. Una decente legge che regoli seriamente il conflitto di interessi è un tabù. Forza Italia, infatti, è un supporto essenziale per una destra già ammaccata. L’editoria assiste alla morte in diretta dei giornali e non si pensa a una riforma. Le risorse del Pnrr per la svolta digitale stanno ancora nel libro dei sogni. Altro che festa, siamo in quaresima. Svegliamoci.