Nella disputa sempre più serrata, il primo punto di condivisione -solo in apparenza ovvio- è che i sistemi presidenzialisti non portano con loro nessun prodigio: possono funzionare oppure no, tanto quanto quelli parlamentari. Il secondo è che in America Latina -ma perfino negli Stati Uniti – zoppicano ormai a tal punto da far temere un qualche collasso della democrazia. Sono le due conclusioni fin qui fatte proprie dall’acceso dibattito latino-americano sull’ estesa ed evidente crisi del presidenzialismo. Che nel rispetto delle diverse esperienze storiche, coincide adesso temporalmente con quello italiano sulle insufficienze del nostro sistema parlamentare. E in entrambi gli emisferi americani così come su tutt’e due le sponde atlantiche coinvolge ricerca accademica e confronto politico fin da prima del dirompente finale dell’amministrazione Trump a Washington.
La vastità geografica e giuridica dei sistemi presidenzialisti esistenti facilmente lascia intuire le loro innumerevoli diversità e versioni. A tenerli nominalmente insieme, nel quadro di una netta separazione dei poteri repubblicani, è l’elezione popolare diretta del Presidente. Al quale oltre quella dello stato viene affidata anche la guida del governo, senza bisogno di un’apposita approvazione del Parlamento. Questo suo comunque poderoso rafforzamento, però, viene più o meno marcatamente condizionato nei vari paesi dalle altrettanto varie e numerose prerogative riconosciute invece ad altri poteri dello stato: il legislativo e il giudiziario in primis. Negli ultimi decenni, ad esempio, le correzioni costituzionali apportate in America Latina sono state quasi tutte in favore di una maggiore capacità d’intervento del potere giudiziario. Allo scopo di fronteggiare una corruzione percepita in forte aumento dall’opinione pubblica.
In Cile, la redazione in corso della nuova Charta Magna dovrà determinare i limiti d’intervento del governo sui diritti dei popoli originari rispetto alle terre ancestrali da essi rivendicate e quelli di tutti i cittadini per quanto riguarda sanità e istruzione pubblica. Con i poteri del capo dello stato e del governo sono quindi in gioco lo spirito democratico e la convivenza di tutti i cileni. Un nodo storico che stringe l’intero subcontinente. Due noti specialisti internazionali di sistemi politici, la peruviana Maria Milagros Campo e il cileno Christofer Martinez, hanno compilato una graduatoria dal più al meno dei poteri reali e diretti riconosciuti dalle rispettive carte costituzionali ai presidenti di 20 paesi latino-americani. Ma il colombiano Gustavo Petro, che vi è indicato teoricamente come il più potente di tutti, ha appena disfatto e ricomposto di nuovo il suo gabinetto perché le riforme da lui proposte non fanno un passo avanti. Al secondo in graduatoria, Lula, il Congresso di Brasilia non gli ha fatto passare a tutt’oggi neanche una legge.
Del resto, non ha una vita più facile Joe Biden. Condizionati dai loro pasdaran al Senato e alla Camera dei Rappresentanti, i repubblicani gli hanno impedito finora di adeguare all’aumento della spesa il tetto del debito pubblico storicamente già rivisto decine di volte (attualmente è pari al 120 per cento del PIL). Si tratta d’una pratica corrente ovunque: le opposizioni pretendono in cambio cospicui favori. Ma stavolta a Washington giocando con il fuoco, perché se non trovano l’accordo entro il mese prossimo gli Stati Uniti vanno in default e non c’è bisogno di ricordare che le conseguenze provocherebbero una catastrofe mondiale. E’ un altro esempio delle prove di forza in corso tra esecutivi e legislativi d’ogni continente. Mostra i limiti del presidenzialismo quando non dispone di una propria maggioranza parlamentare, come ormai accade quasi sempre e ovunque. Aiuta a comprendere come alla questione istituzionale sia collegata l’urgenza di un’adeguata legge elettorale. Poiché, eccone il fondo: la questione istituzionale è una questione sociale.
All’origine delle sempre maggiori difficoltà della politica a governare tanto con il sistema parlamentare quanto con quello presidenziale, c’è la frammentazione globale del mercato del lavoro e conseguentemente dei redditi prodotti. Acuita per contrasto da una preponderante concentrazione finanziaria. L’una e l’altra si riflettono nei comportamenti politici dei cittadini, sui livelli della loro partecipazione alla vita pubblica, su una frequente e abnorme volatilità del voto (tutti corrispettivi delle società liquide). Determinando per i partiti a loro volta parcellizzati la necessità sempre più stringente di coalizioni elettorali, il cui grado di eterogeneità condiziona però la coerenza del programma, le possibilità di realizzarlo. Per restare in America Latina, pur nella specifica situazione di ciascuno, è questa l’origine delle difficoltà di governo ogni giorno più evidenti con cui si stanno misurando i presidenti Gabriel Boric in Cile, Lula da Silva in Brasile, Gustavo Petro in Colombia, Alberto Fernandez in Argentina, Andrès Manuel Lopez Obrador in Messico.
I disagi sono forti tanto quanto i rischi che comportano. Poiché spingono a estremizzare le opposte alternative e accelerarne la pendolarità, iniettando tensioni crescenti al quadro democratico. Nella fase attualmente in atto a farla da protagoniste sono apparse le nuove destre, iperliberiste in economia ma politicamente dogmatiche. La loro principale componente proviene infatti dall’estremismo tradizionalista cattolico e soprattutto evangelico. La rinnovata commistione della religione con la politica serve a quest’ultima per camuffare la sua caduta di credibilità con il fideismo mistico della prima. A dispetto del suo nome, il Partito Repubblicano che ha trionfato nelle recenti elezioni costituzionali in Cile ha alle spalle l’Opus Dei. La destra argentina presenta una schiera di dirigenti figli di pastori evangelici. In Brasile sono evangelici e militari a sostenere il bolsonarismo. Fonti anche del ritorno dell’avventurismo caudillista. L’ostruzionismo sistematico dell’opposizione alle riforme indispensabili al rilancio dello sviluppo sta caricando una bomba a orologeria.