L’appuntamento di maggio per la rubrica “Dalla parte di Lei” è dedicato a Gisella Floreanini. È Elisa Signori a raccontarne la sua storia facendo emergere con efficacia il profilo di una donna forte con un’identità poliedrica.
Gisella è nota per i 44 giorni della Repubblica libera ossolana a cui partecipò da protagonista. E poi nella Resistenza col nome Amelia, leggendaria capa del CNL nel durissimo inverno del 1944, fino alla liberazione. Ma Gisella fu molto di più e così la sua vita. Il racconto che ne fa Elisa è avvincente. Le sue scelte nell’impegno antifascista e politico in generale, così come nella sua vita privata, sono coraggiose, nette mai scontate e anche eccentriche, “non convenzionali, se non addirittura eversive nell’accezione corrente della moralità”, come scrive Elisa. Fu tra le tredici donne “nominate” nella Consulta, su 430 componenti, con decreto legislativo luogotenenziale del 5 aprile 1945, n.146. Fu eletta in Parlamento nel 1948 e vi restò per due legislature. Non fu candidata alla Costituente. La cultura patriarcale, che il fascismo aveva esasperato, costituiva un ostacolo all’ingresso delle donne nella politica nonostante la liberazione dal nazifascismo. Per quelle con rapporti interpersonali “irregolari” ancora di più. Una vera e propria discriminazione che non valeva per gli uomini. Ho cercato nel decreto citato i nomi relativi alle nomine dei partiti nella Consulta. Non ho trovato Gisella Floreanini ma Gisella Della Porta nei nominati dal P.C.I. Mi sono ricordata che, in effetti, fino alla legge del 1975 per il nuovo diritto di famiglia, le donne sposate dovevano utilizzare il cognome del marito a cui poteva seguire il proprio. Nei primi anni di insegnamento e fino al nuovo diritto di famiglia ho anch’io subìto questo esproprio di identità.
L’impegno di Gisella continuò dopo la liberazione, con la Repubblica e la nuova Costituzione contribuendo in Parlamento e non solo a impedire che si offuscasse quella specie di alchimia di cambiamento della società che si era percepita. Con la Resistenza e la Liberazione. Bisognava ancora lottare. Le donne ancora di più. Senza donne come Gisella e come quelle che andiamo raccontando in questa rubrica (e molte altre) non saremmo giunte fino a qui. Dobbiamo portarle con noi sempre perché non smettano di illuminare la nostra vita, il nostro futuro e quello delle nuove generazioni.
MGG
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Non sono molti i segni materiali che ci parlano, a trent’anni dalla sua morte, di Gisella Floreanini spentasi a 87 anni proprio il 30 maggio 1993. A suo nome sono state intitolate una scuola media e una via a Domodossola, nonché un’altra via a Novara. E si capisce: sono questi luoghi il contesto del capitolo più noto della sua storia, sono gli scenari nei quali si dipanarono i 44 giorni della Repubblica libera ossolana e poi la Resistenza partigiana cui partecipò da protagonista. Dopo la caduta in mano fascista di Domodossola Gisella raggiunse infatti le bande partigiane in Valsesia nel durissimo inverno del 1944, diresse poi il CLN novarese fino al 26 aprile 1945, quando i tedeschi trattarono la resa e fu lei, la leggendaria “Amelia”, a liberare dal carcere gli ultimi prigionieri dei nazifascisti e a consegnare alla sopraggiunta delegazione militare inglese la città, già libera grazie ai suoi partigiani e alla sua popolazione.
Non a caso per sua volontà le spoglie riposano nel camposanto di Domodossola, patria del cuore per l’“Amelia”.
Tuttavia la sua ricca, intensa biografia politica e intellettuale non si riassume tutta in quei luoghi né in quegli scenari di guerra. E penso tra l’altro a Milano che pure è stata la sua città, dove ha operato con impegno e a lungo, e dove ho avuto il privilegio di conoscerla nel lontano gennaio del 1981. Le avevo chiesto un colloquio, a proposito dei rifugiati italiani in Svizzera tra il 1943 e il 1945, che allora stavo studiando, e con lei parlammo a lungo delle reti antifasciste attive dentro e fuori dai campi di internamento, parlammo di frontiere e di missioni clandestine. Di quell’incontro serbo appunti dettagliati e il ricordo di una grande precisione nell’indicare protagonisti e problemi di quella esperienza, senza alcuna enfasi nel raccontare il suo personale contributo a quelle vicende, sempre relegato sullo sfondo. Ricordo la luminosa mansarda di corso Vercelli a Milano dove mi accolse e le piante che vi crescevano rigogliose e che a posteriori colorano di una luce verde brillante le immagini di quell’incontro archiviate nella memoria.
Gisella Floreanini era giustamente orgogliosa della sua nomina a Commissario all’assistenza e ai collegamenti con gli organismi di massa, decisa all’unanimità dalla Giunta di governo della libera Repubblica dell’Ossola – «per la prima volta – scrisse – una donna che non fosse né regina né principessa assumeva impegni di governo» e fu la «prima donna ministro nella storia d’Italia » -, ma ne valorizzava il significato non tanto come un tributo di stima alle sue doti personali, ma quale riconoscimento precoce, proprio durante la prova drammatica dell’opposizione al nazifascismo, dei diritti, delle competenze e dell’impegno di tutte le donne. «La capacità politica e amministrativa, la massiccia presenza delle donne, la loro intelligenza e il loro valore furono riconosciute incondizionatamente dai volontari della libertà e dagli uomini politici […] quando ancora le donne italiane non avevano conquistato il diritto di voto».
Oltre al valore collettivo di quella sua esperienza istituzionale Gisella Floreanini teneva a rivendicare la lunga durata dell’impegno antifascista femminile e le radici della partecipazione delle donne, in armi e senz’armi, alla Resistenza, che – osservò – «non ebbe inizio l’8 settembre 1943» e «non fu un’improvvisa fiammata di eroismo».
In un’appassionata conversazione tenuta il 23 gennaio 1975 nell’Aula Magna dell’Università cattolica di Milano Gisella spiegò che «Esplose sì allora la combattività antifascista delle donne, ma essa si sostanziava di una volontà liberatrice che era venuta maturandosi attraverso le sofferenze e le privazioni imposte dalla stolida politica di guerra del fascismo, da quella reazionaria e antistorica verso le donne, fatta di reazionari principi di negazione del lavoro, di discriminazione e di sfruttamento del lavoro femminile nella scuola, nelle leggi, nell’imposizione bassamente volgare, nella mera funzione biologica, della continuazione della specie». Tra le righe possiamo anche qui cogliere il senso autobiografico di quella rievocazione, pur nel riserbo che Gisella coltivò sempre per il racconto in prima persona.
Nella costruzione della sua identità politica e nella scelta dell’impegno attivo contro il fascismo ritroviamo infatti le tracce di un retroterra complesso, di una scelta d’impegno certo non improvvisata ma nutrita di varie influenze ed esperienze. Va detto che non vi si ravvisano gli elementi “classici” della militanza comunista – l’estrazione proletaria, la partecipazione agli scioperi, lo sfruttamento in fabbrica o in campagna -, ma piuttosto un percorso che si snoda in ambienti borghesi, ad un livello culturale elevato, di cultura aristocratica e raffinata come quella musicale e che, a partire dall’influenza familiare antifascista, la spinse negli anni Trenta a frequentare gruppi e reti cospirative dell’antifascismo democratico e socialista. Da “Giustizia e Libertà”, fondato nel 1929 da Carlo Rosselli, Lussu, Salvemini, al Centro interno Socialista di Rodolfo Morandi, Floreanini sperimentò idee e modalità diverse di cospirazione antifascista, integrandosi poi nel gruppo Erba, operante a Milano, nel Vercellese e in Valsesia in collegamento con i centri dell’antifascismo italiano fuoruscito in Svizzera. Si trattava di un volenteroso tentativo di unire sul terreno dell’opposizione al fascismo elementi di varia connotazione sociale – studenti, operai, artisti – e di orientamento politico diverso, dai socialisti ai comunisti, dai democratici ai repubblicani. La scelta comunista di Gisella Floreanini non fu dunque un prologo ma piuttosto la conclusione di quell’itinerario: vi approdò qualche anno più tardi quando, dopo gli arresti a Borgosesia e a Milano che scompaginarono il citato gruppo Erba – le sentenze emesse poi dal Tribunale speciale nel 1937 e nel 1938 comminarono condanne a decenni di carcere e confino – ormai “bruciata” come militante in Italia, riparò clandestinamente in Svizzera.
Fu dunque durante il suo esilio svizzero, nel Ticino e a Ginevra, che Floreanini, attiva nella Lega per i diritti dell’Uomo (LIDU) e segretaria della sezione ginevrina del Psi, contestò all’epoca del patto Ribbentrop- Molotov del 24 agosto 1938 la rottura del patto d’azione tra Pci e Psi, decisa da quest’ultimo. Gradualmente si orientò così verso il partito comunista, nelle cui file risulta documentata la sua attività nei primi anni di guerra.
Come spiegare questa adesione? Gisella Floreanini era forse una neofita comunista filo-staliniana, diventata una militante insensibile ai diritti di libertà e di giustizia che il regime sovietico aveva dimostrato di calpestare fino ad assumere i connotati di una dittatura? E in ambito internazionale il consenso al Pci, proprio quando la Realpolitik staliniana metteva in crisi ovunque la fiducia nel paese della rivoluzione, significava un avallo dell’alleanza sovietica con Hitler?
Pongo qui domande volutamente provocatorie e propongo qualche risposta. Se ci liberiamo del senno di poi che tanto spesso ispira le valutazioni dei posteri e ci poniamo idealmente tra il 1938 e il 1940 in quel crocevia di eventi e problemi, affiorano molte componenti di una coscienza antifascista unitaria e di una carica di volontarismo che costituirono la cifra dell’impegno di Floreanini. Allenata dalle sue precedenti esperienze a mettere da parte settarismi e sottigliezze ideologiche, Floreanini dovette ritenere una iattura la divisione interna delle forze antifasciste, specie di fronte alla minaccia del Novus Ordo nazifascista che gravava sul destino europeo e difese la collaborazione tra socialisti e comunisti, comunque viva e operante ad esempio nel contesto ginevrino di quegli anni a lei familiare.
Dovette certo avere forte risonanza anche su di lei il mito positivo dell’URSS, che, in mancanza di una diretta e più spregiudicata conoscenza della realtà dell’esperimento sovietico, visto attraverso la lente idealizzante della liberazione e redenzione degli oppressi, attrasse tanti giovani dell’ultima generazione antifascista e ispirò loro un generoso investimento di speranza e di fiducia. Alla luce della quale, tra l’altro, il patto Ribbentrop-Molotov, dovette apparire nient’altro che una mossa tattica, un espediente dilatorio in vista di un prossimo, definitivo scontro frontale col nazismo.
Si aggiunga la peculiare attitudine di Floreanini a collaborare in vista di obiettivi comuni con antifascisti non necessariamente militanti nello stesso perimetro partitico e la presumibile ammirazione per l’abnegazione dei quadri comunisti, per la loro combattività e competenza organizzativa e si avrà un quadro plausibile delle valutazioni cui la “Gisa” –così in molti la chiamavano – sarebbe poi rimasta fedele anche in tempi di pace e negli anni della Repubblica.
Fu per conto del Pci pertanto che Gisella compì diverse missioni clandestine di collegamento tra Svizzera e Italia, ove era rientrata dopo il 25 luglio 1943. Fu in una di queste missioni che tra maggio e giugno 1944 venne intercettata dalla polizia svizzera e incarcerata per passaggio illegale della frontiera. Dal carcere, inasprito da qualche giorno di segregazione cellulare, Gisella Floreanini sarebbe uscita nel settembre successivo allorchè, avuta notizia della creazione della zona libera dell’Ossola chiese e ottenne di essere espulsa verso il confine ossolano.
Ricordo ancora l’episodio che al proposito lei stessa mi raccontò, fiera dell’accorgimento allora adottato per non vanificare l’esito della sua missione. Latrice di una cospicua somma di denaro elargita dall’American Friends Service Committee quacchero a supporto della causa antifascista, Floreanini, grazie al lavoro di un abile ciabattino, aveva nascosto i dollari americani nei tacchi delle sue scarpe, sfuggite alla perquisizione della polizia. Con l’aiuto di un compagno ticinese, Romeo Nesa, già volontario in Spagna e ferito in guerra, la somma giunse poi con grande soddisfazionedi tutti nelle mani dei destinatari.
Al di là dell’espediente cospirativo, la vicenda esemplifica bene la rete di solidarietà creatasi durante l’esperienza svizzera di Gisella, intessuta con pazienza tra Ginevra, Zurigo e soprattutto il Canton Ticino. Attraverso quei contatti Gisella aveva slargato i suoi orizzonti ideali, culturali, ma anche operativi. E durante l’esperienza ossolana potè metterli più volte a frutto, ottenendo aiuti materiali e sostegno, ad esempio nell’organizzazione dei convogli ferroviari che portarono molti bambini ossolani, denutriti e a rischio, nelle case di generosi amici ticinesi, che li accolsero spontaneamente e accudirono. Per la stampa fascista repubblichina si trattò di “deportazione” oltre frontiera dei bambini italiani, in realtà si intrecciarono allora legami di gratitudine e affetto rimasti poi vivi di qua e di là dalla frontiera in tempo di pace.
Tornando al bell’intervento pubblico di Gisella nel 1975, va sottolineata una componente fondamentale della sua personalità che traspare nelle parole poc’anzi citate, ossia la consapevole valenza antagonista e rivoluzionaria dell’impegno suo e di altre donne della sua generazione nei confronti dell’identità femminile, da sempre relegata in una immobile subalternità sociale, culturale, di diritti e di linguaggi.
Entriamo così in una dimensione più intima, esistenziale, del suo percorso politico. Gisella Floreanini varcò più volte di slancio non solo la frontiera politica e militarmente munita che divideva due paesi vicini, ma con pari coraggio varcò le invisibili frontiere simboliche della differenza di ruolo tra uomo e donna, così come la società del suo tempo aveva codificato e il fascismo aveva aggravato. La costruzione del suo impegno politico pare pertanto procedere in sintonia con scelte personali non convenzionali, se non addirittura eversive nell’accezione corrente della moralità. La rottura di un matrimonio e la creazione di un nuovo libero legame con Vittorio Della Porta, attivo nello stesso gruppo Erba di cui s’è detto, un legame fondato su comuni idealità etico-politiche, il ridimensionamento del ruolo materno con la dolorosa separazione dalla figlia, il matrimonio contratto con Della Porta a Lugano e poi sciolto nel dopoguerra, la solitudine scelta e in parte subita per il resto della sua vita, sono altrettanti momenti, vissuti senza alcun compiacimento trasgressivo, di una ricerca strenua di coerenza tra affetti, pensiero e azione. Per tutto ciò Gisella pagò un prezzo assai alto non solo nell’Italia fascista, di cui lei stessa stigmatizzò in diverse occasioni la politica regressiva e repressiva verso le donne, ma anche nell’Italia repubblicana, tra le file di un partito come quello comunista, avaro di comprensione e, anzi, incline alla moralistica riprovazione per militanti come la Floreanini dalla situazione personale “irregolare”. E’ forse inutile osservare che si trattava di una sanzione asimmetrica, che non colpiva o coinvolgeva i compagni dirigenti dalle situazioni familiari anomale, ma si limitava a emarginare le compagne in condizioni analoghe.
Si dovette probabilmente a questo moralismo bigotto se una militante come Gisella, di grande statura politica e di grande prestigio personale non fu mai cooptata nel Comitato centrale del partito, dove avrebbe certo meritato di stare.
Malgrado questa larvata discriminazione, Gisella Floreanini fu una delle 13 donne – 13 su un totale di 430 membri – nominate alla Consulta Nazionale, l’organismo non elettivo, creato il 5 aprile 1945 per affiancare il governo e offrirgli pareri su questioni di particolare rilevanza. La sua nomina ebbe il valore di un riconoscimento inequivocabile della sua competenza politico-amministrativa, ma alle successive elezioni per la Costituente Gisella fu di nuovo penalizzata dalla scelta del Pci di non candidarla nel collegio novarese, ove poteva contare su un vasto consenso, ma in quello di Milano. Fu un’altra conferma della sottile, strisciante disapprovazione espressa dal partito nei suoi confronti.
Peraltro nelle successive due legislature Floreanini fu eletta deputato e visse con impegno il suo mandato alla Camera fino al 1958, presentando disegni di legge per la protezione della maternità e dell’infanzia e per l’applicazione della parità di genere. In queste iniziative, a fianco di compagne come Teresa Noce “Estella” – cui dedicò in mortem un commosso ricordo -, Gisella sperimentò con altre parlamentari inedite alleanze trasversali che, superando gli steccati dell’appartenenza partitica, puntavano a fare fronte comune per strappare diritti garantiti alle donne dalla Costituzione, ma ridimensionati o addirittura negati nella prassi concreta.
Ancora bisognerebbe lumeggiare il suo impegno nell’Unione donne Italiane, sempre a vantaggio dell’infanzia e della condizione femminile, illustrare la sua attività per conto del Pci nella segreteria della Federazione democratica internazionale della donna (FDIF) a Berlino tra il 1959 e il 1963 – ancora una volta un incarico del partito defilato dal centro della scena politica nazionale – e poi il ruolo di amministratrice svolto nei consigli comunali di Domodossola, Novara e Milano, per finire con la partecipazione appassionata alle iniziative dell’Anpi milanese.
Ma in conclusione credo convenga dedicare almeno un cenno a una dimensione talvolta dimenticata ma cruciale della sua personalità e della sua vita: la musica. Diplomata al Conservatorio Verdi di Milano, Gisella coltivò per tutta la vita questo suo talento musicale, insegnando pianoforte e storia della musica. Sensibilità e passione, ascolto e pratica pianistica l’accompagnarono nei diversi e difficili contesti della sua esistenza, affiorando a tratti in superficie, in occasione di una conferenza, come quelle di storia della musica che tenne a Ginevra alla Dante Alighieri durante il suo esilio, o pronunciando un discorso pubblico, come la sua commossa, emozionante commemorazione di Arturo Toscanini alla Camera il 17 gennaio 1957, o, ancora per un incarico istituzionale, come quello svolto nel più milanese dei luoghi dell’universo musicale, il Teatro alla Scala.
Non so quali furono i suoi autori più amati e m’immagino la musica come una sommessa colonna sonora dei suoi giorni. Un po’ come nel film Quaranta giorni di libertà del 1974, dove una giovane Anna Identici presta il suo volto ad Amalia e canta con voce fresca e limpida un motivo orecchiabile, che fa da leitmotiv al racconto.