BASTA VIOLENZA SULLE DONNE - 25 NOVEMBRE TUTTI I GIORNI

Don Milani fra la scuola e la pace

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Fra tutti gli eretici, don Milani è forse il più importante. Per la sua profezia, per la grandezza delle sue intuizioni ma, soprattutto, per aver saputo diventare un’icona senza mai voler essere un personaggio. Scomodo, scomodissimo per chiunque, a cominciare dalle gerarchie ecclesiastiche, questo insolito prete toscano venne confinato a Barbiana, praticamente mandato in esilio, affinché le sue idee non si diffondessero. Accadde il contrario. Grazie alla sua scuola, al suo costante impegno in favore degli ultimi, degli esclusi e degli emarginati, alla sua passione civile e al suo coraggio nel chiamare “culo il culo”, le idee di questo sacerdote da marciapiede si diffusero rapidamente, anche in un’epoca in cui ancora non esistevano i social, e la sua umanità fece la differenza in un decennio noto per essere stato il tripudio dei rivoluzionari.
Proprio per questo, ancor più di “Che” Guevara, di Martin Luther King e di altre figure emblematiche degli anni Sessanta, pensiamo, a ragion veduta, che almeno nel nostro Paese sia stato questo pretaccio di strada a modificare il corso delle cose. Accadde perché non si tirò mai indietro, perché sostituì, nell’immaginario collettivo, il “Me ne frego” di matrice fascista con l'”I care” che tanta fortuna ebbe anche nei campus universitari di oltreoceano, perché seppe mettere in discussione tutto e perché la sua profezia non ha mai perso d’attualità. Ci sono, mi riguarda, il destino degli altri è uguale al mio: sono solo alcuni dei capisaldi di questo innovatore in tonaca che non si fece problemi a sfidare i cappellani militari e il dogma del servizio di leva, affermando che “l’obbedienza non è più una virtù” e sposando in pieno il messaggio pacifista di Danilo Dolci e Aldo Capitini, contro la logica delle armi e degli eserciti che, purtroppo, è tornata prepotentemente a frasi strada.
È sulla scuola, tuttavia, che scrisse pagine indimenticabili, ad esempio in “Lettera a una professoressa”, affermando che la scuola non può bocciare né escludere, che deve porre lo studente al centro e che deve porsi innanzitutto il problema di venire incontro agli ultimi, agli esclusi, a chi è nato indietro, altrimenti smarrisce non solo la sua bellezza ma la sua stessa ragione di esistere.
Don Milani credeva nel valore dell’uguaglianza e si batteva affinché nessuno fosse “straniero”, se non gli oppressori, i malvagi e i detentori del potere che tuttora ne abusano per interessi personali. A Barbiana nessuno venne abbandonato. Nella scuola di don Milani si leggeva il giornale e si parlava di politica, si studiava seriamente e ci si confrontava, si sviluppava lo spirito critico e si affinava la coscienza; insomma, si realizzava a pieno la speranza di Calamandrei, secondo cui proprio fra i banchi doveva avvenire il miracolo di “trasformare i sudditi in cittadini”.
A cento anni dalla nascita di una personalità così importante e significativa, assistiamo invece a un continuo rullare di tamburi di guerra, a un costante incitamento alla violenza, alla più assoluta mancanza di attenzione e di rispetto nei confronti di chi ha meno, all’irrisione dei poveri, al disprezzo verso gli sconfitti e a un odio sociale senza precedenti né giustificazioni possibili. Quanto alla scuola, siamo passati da una ministra che teneva l’opera omnia di don Milani sulla scrivania del suo ufficio a Viale Trastevere a un personaggio che, qualche mese fa, ha addirittura parlato del valore educativo dell’umiliazione, a dimostrazione che non era l’esser donna il problema della prima, e neanche la sua appartenenza politica, bensì la visione del mondo che esprimeva in ogni pensiero e in ogni azione, comprese quelle simboliche che, però, contribuiscono non poco a far capire lo spirito e le idee di una persona. Quel biennio, segnato dal Covid e dalla paura collettiva, è stato l’ultimo momento in cui abbiamo avuto l’impressione che almeno qualche aspetto di quella profezia immortale potesse realizzarsi. In quei due anni ci siamo illusi seriamente che qualcosa potesse cambiare, che le persone avessero nuovamente un ruolo e una funzione all’interno della società, che ciascun essere umano potesse essere riconosciuto nella sua unicità, che i bambini e le bambine, che non votano ma costituiscono il nostro patrimonio più importante, avessero trovato orecchie sensibili all’ascolto delle loro esigenze; in poche parole, che per sbaglio quel vento sessantottino, che tanto bene aveva fatto alla nostra comunità a suo tempo, fosse tornato a spirare.
Oggi siamo ripiombati nel grigiore, nell’esaltazione acritica del merito, inteso non come ascensore sociale ma come clava da brandire contro i più fragili, nella valutazione spinta all’estremo, nella competizione elevata a virtù, nella guerra fra poveri che serve ad alimentare il “divide et impera” e nel tripudio di un bellicismo retrogrado e pericoloso che dal Donbass giunge fino alle nostre aule scolastiche, al punto che si torna a parlare di leva volontaria anziché coltivare il valore supremo della ribellione a un sistema ormai marcio e della lotta pacifica e costruttiva contro un modello sociale, economico e di sviluppo che tanti lutti e altrettanto dolore ha causato negli ultimi vent’anni.
Don Milani, il prossimo 27 maggio, avrebbe compiuto cent’anni. Temiamo che sarà celebrato con tanta retorica, tante fanfare, tante frasi fatte e altrettanti luoghi comuni, trasformato in un santino e portato in processione per vivere un giorno di effimera gloria, prima di cadere nuovamente nell’oblio. Nessuna forza politica, del resto, può intestarsi oggi il suo pensiero, perché per intestarsi il suo pensiero sarebbe necessario gridare che “un altro mondo è possibile” e che dobbiamo costruirlo insieme, dato che “sortirne da soli è avarizia”. Tuttavia, dopo quarant’anni di thatcherismo dilagante, di individualismo sfrenato e di egoismo presentato come il non plus ultra, la verità è che ci mancano le parole per esprimere sentimenti alternativi. L’umanità, la dolcezza, la giustizia, la sensibilità, l’amore per il prossimo, il credere davvero che “il problema degli altri è uguale al mio”, ossia la dimensione politica e collettiva dell’esistenza e dell’impegno civico, tutte queste virtù sono andate perdute. Rimangono appannaggio di poche persone, spesso irrise ed emarginate, in una Nazione che ha smarrito se stessa, in un mondo in cui è vietato pronunciare la parola “pace” e in una scuola che insegna, sempre più spesso, che il buono è sostanzialmente un fesso. Nonostante tutto, almeno da queste parti, non ci rassegneremo mai al declino. E se anche tutto dovesse crollare, non resteremmo passivi.

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