L’ultimo romanzo di Leonardo Sciascia, “Una storia semplice”, una sorta di testamento, trasposto da Emidio Greco nel film omonimo del 1991, con un indimenticabile Gian Maria Volonté, alter ego del grande scrittore nei panni del professor Franzò, prende forma drammaturgica con l’adattamento e la regia di Gianni Anfuso (non deve essere stato semplice) sui legni dello Stabile di Catania, che intende rendere omaggio all’autore nel centenario della nascita, alla cultura siciliana, alla tradizione, secondo le inclinazioni del cartellone di quest’anno.
La pièce è un misto di narrazione e drammatizzazione, in cui i personaggi entrano ed escono dal loro ruolo interpretando e raccontandosi nello stile letterario caro agli estimatori di una delle figure di intellettuali più rilevanti del’900. La voce di Sciascia risuona così sul palco, emozionando spettatori e attori.
L’introduzione di Giuseppe Pambieri, disinvolto e carismatico nelle vesti del narratore/scrittore/professor Franzò, ci porta alle atmosfere di un vero e proprio “giallo”, in una Sicilia dai contorni ambigui e dalle inquietanti sfaccettature.
La sera della vigilia della festa di S. Giuseppe alla Polizia di un oscuro paesino siciliano arriva una telefonata di tal Luca Roccella di Monterosso, diplomatico in pensione, lontano dal suo paese d’origine da molti anni, che chiede di recarsi presso la sua masseria dove ha trovato qualcosa che vuole mostrare alle forze dell’ordine. La richiesta viene rimandata all’indomani dal commissario, che ritiene si tratti di uno scherzo. Durante il sopralluogo il mattino dopo il Roccella viene trovato morto, sparato alla testa. Sulla scrivania un foglietto con su scritto “Ho trovato.” Sembra un suicidio, ma contraddicono alcuni particolari incongrui rilevati dal Brigadiere, uomo di coscienza e cercatore di verità, che coordina le indagini, scatenando le ire del Questore che vorrebbe liquidare velocemente la faccenda con la lapidaria e grottesca affermazione: Su-i-ci-di-o. Man mano che proseguono le indagini, la storia si complica fino a coinvolgere tutte le Forze dell’Ordine, tra ridicoli battibecchi, rivalità, superficialità, rivelando un sottobosco malavitoso che faceva capo alla masseria abbandonata, usata per loschi traffici mafiosi. Viene ingiustamente fermato un testimone, l’uomo della Volvo che aveva visto alla Stazione quelli che lui credeva essere il capostazione e i colleghi, uccisi dai malfattori che ne avevano preso il posto. Sembrerebbe una banale storia di malavita, ma presto si rivelerà un concentrato di scandalose nefandezze e collusioni perpetrate dai principali esponenti della comunità: il commissario, che si è tradito durante il sopralluogo, rivelando una strana dimestichezza con la villa del diplomatico, e persino il prete, rei dei delitti commessi a catena per non svelare le illegalità venute in superficie, che comunque rimarranno segrete, per proteggere il buon nome delle istituzioni. Uno scenario inquietante, un concentrato di corruzione che Sciascia ha voluto in extremis magistralmente e amaramente rappresentare, in linea con i suoi scritti di denuncia e di speranza, anche in quest’ultimo desolante commiato, per non dimenticare, per vigilare, per non abbassare mai la guardia.
Scenograficamente divisa in due piani, un sopra e un sotto, e in due prospettive, un davanti e un dietro, animata da un ritmo vivace a supporto della complessa narrazione/interpretazione, ben sostenuta da un cast sinergico, la pièce, densa e scorrevole, riesce a far emergere i temi cari al Nostro; in primis il perenne conflitto tra cultura e ignoranza, onestà e disonestà; in secundis l’incapacità della indolente Giustizia di farsi strada in un percorso tortuoso e impegnativo; infine l’input sotterraneo, ma fondamentale: bisogna sempre provarci a cercare la verità e la giustizia. Un uomo che sia tale non può accettare supinamente i soprusi, anche se a volte lo fa per salvarsi la pelle, come l’uomo della Volvo che finalmente liberato, pur riconoscendo nel prete il falso capostazione, gira i tacchi e se ne va, come molti che preferiscono non collaborare per non incorrere nella Giustizia male amministrata da rappresentanti indegni del loro ruolo. Un quadro desolante che chiude con palese disincanto una vicenda letteraria di grande forza e impatto, nonostante le apparenze senza rinunciare alla sua funzione: svelare e stimolare un atteggiamento civile più combattivo. Le parole amare e lapidarie del dolente professor Franzò, amico di vecchia data della vittima, al Brigadiere:“…Ad un certo punto della vita non è la speranza l’ultima a morire, ma il morire è l’ultima speranza” sembrano suggellare lo sconforto dello scrittore ormai stanco e malato, ma finché ne scrisse, fino all’ultima goccia di inchiostro, la sua scrittura è segno di speranza indomabile, consegnata alla storia.
UNA STORIA SEMPLICE
adattamento e regia Giovanni Anfuso
con Giuseppe Pambieri
Paolo Giovannucci, Stefano Messina
e con Davide Sbrogiò, Liliana Randi, Carlo Lizzani, Geppi Di Stasio, Marcello Montalto, Luigi Nicotra, Giovanni Carpani
scene Alessandro Chiti
costumi Isabella Rizza
musiche Paolo Daniele
luci Pietro Sperduti
produzione Teatro Stabile di Catania, Cooperativa Attori&Tecnici Roma
Al Teatro Verga di Catania fino a Domenica 16 Aprile
Una storia tutt’altro che semplice. Sciascia in palco con Giuseppe Pambieri