Alla Casa della Memoria di Milano, grazie all’iniziativa di ANED (Associazione Nazionale ex-Deportati nei campi nazisti) è stato presentato, il 25 gennaio, il libro
Riaffiorano le nostre vite di Dunya Breur con i disegni di Aat Breur pubblicato nel 1983 in Olanda, con una sola traduzione successiva in tedesco.
Dobbiamo questa edizione italiana all’intuizione della storica Anna Paola Moretti, all’interesse dell’editrice Enciclopedia delle Donne e al contributo dell’Aned. Il libro, ottimamente tradotto dall’olandese da Franco Tirletti, ha molti meriti, prima di tutto averci fatto conoscere i disegni che Aat Breur, resistente olandese deportata a Ravensbrück, ha realizzato all’interno del lager e che colpiscono per la lievità del segno, e poi, attraverso le testimonianze raccolte dalla figlia Dunya l’aver dato voce a quei ritratti e ricomposto un affresco corale.
Ma la vera ricchezza di questo libro risiede in un diverso percorso di Memoria, che apre uno spiraglio sulle difficoltà della seconda generazione su cui non è stato indagato sufficientemente, quando forse sarebbe stato utile per comprendere più a fondo quale sia stato il trauma della deportazione.
Molte delle testimonianze che negli anni sono state scritte o rilasciate, si sono concluse con la fine dell’esperienza dei sopravvissuti. Spesso si è parlato anche del loro ritorno, che è stato difficile per tutti e in particolare per le donne, ma in realtà le narrazioni non ha quasi mai oltrepassato la porta di casa dove le dinamiche che si sono sviluppate nel corso degli anni tra i vari componenti si sono rivelate complesse.
In questo caso è Dunya ad investigare, appena le è stato possibile, sulla storia della sua famiglia e sul passato della madre Aat, in famiglia sempre taciuti, cercando indizi, segnali, qualunque elemento potesse rispondere a domande che era difficile anche formulare.
Il ritrovamento nella casa dei nonni, nascosta in un libro, di una fotografia di corpi emaciati gettati in una fossa, le lezioni di storia del suo professore e la lettura di libri permettono finalmente a Dunya di iniziare a comprendere il destino della sua famiglia, a cominciare dalla mancanza del padre che più tardi scoprirà essere stato ucciso nel 1943 perché attivo, come la madre, nella Resistenza olandese.
Gli incontri con la migliore amica di Aat, Heidi Hautval, da cui lei e il fratello vengono condotti spesso, le fanno capire che il rapporto tra le due donne, che ha profondamente segnato la vita di entrambe creando un legame indissolubile, nasce nel periodo di cui in famiglia non si parla.
Anche se non è mai citata in modo esplicito, la guerra è sempre presente sullo sfondo dei loro discorsi e dei loro ricordi.
Essere venuta a conoscenza dell’esistenza dei disegni creerà in Dunya nuove aspettative che saranno ancora una volta deluse, perché l’angoscia e la depressione di Aat rappresentano un impedimento che non le consente di oltrepassare la porta per poterli vedere.
La storia di Dunya in questo senso diventa paradigmatica perché su di lei sembrano confluire tutti gli interrogativi, le ansie e anche direi la voglia di riscatto della storia della sua famiglia.
Finalmente in una giornata d’estate del 1980, nel giardino di casa, Dunya avrà tra le mani quella vecchia cartella ingiallita dal tempo, e dopo con pudore, in un angolo della casa, comincerà a sfogliarla: le donne e i bambini di Ravensbrück sono lì davanti a lei e a quei visi lei pone un diluvio di domande. Quella storia chiedeva di essere compresa, ripercorrendo a ritroso il tragitto che porta al lager.
A Ravensbrück è stridente il contrasto tra la bellezza del luogo e l’inferno di cui è stato testimone, ma questo la interroga ancora di più e in quella quiete, che sovrasta il lago e il memoriale, Dunya coglie e comprende il lungo silenzio di sua madre. Cosa si può dire quando tra quei boschi echeggiavano ordini secchi e abbaiare di cani, quando vedeva spengersi le sue compagne consunte dalla fatica e dalle malattie, o condotte nel bunker di punizione da cui non sarebbero tornate, o selezionate per la camera a gas, quando viveva in un universo parallelo di cui non conosceva i confini, quando in quel lago venivano sparse le ceneri delle compagne morte?
Visitando il museo del campo, trova esposti alcuni disegni di Aat, visi riconosciuti come se avesse avuto con loro una frequentazione reale e questo rende più forte l’urgenza di conoscere le loro storie. Ecco allora che alla testimonianza di sua madre, si aggiungono quelle di Heidi Hautval, di Violette Rougier Lecoq, di Sabine Zuur,di Erika Buchman (tramite un racconto scritto conservato da Violette), Lotte Müller e di altre compagne fino a comporre un intero affresco di storie rimaste celate nei boschi del Brandeburgo.
Il continuo alternarsi di pagine sulla narrazione del campo e sul dopo creano, da una parte, una sorta di straniamento temporale, ma dall’altra una congiunzione degli avvenimenti, così come Dunya li ha vissuti, e rendono evidenti i motivi di questo libro perché come lei stessa dichiara “ho scritto questo libro semplicemente perché dovevo, perché non avevo altra scelta.”
Ambra Laurenzi
Presidente Comitato Internazionale di Ravensbrück