Quando un gerarca nazista vide la raffigurazione di Guernica, gli domandò: “Ha fatto lei questo orrore?”. E lui rispose: “No, l’avete fatto voi”. Mezzo secolo fa ci diceva addio Pablo Picasso, uno dei più grandi pittori del Novecento e di tutti i tempi, simbolo del cubismo e della lotta contro ogni forma di totalitarismo e di barbarie, autore della bandiera della pace, protagonista della battaglia universale per i diritti umani, sempre in prima linea al fianco degli ultimi e dei deboli e tra i firmatari del Manifesto dei Partigiani di Stoccolma contro la bomba atomica.
La sua avventura umana è stata un romanzo, nella Parigi scintillante di inizio Novecento e nella Spagna povera e disperata che negli stessi anni, sfiancata dalle crisi a ripetizione, fu infine costretta a sottomettersi al franchismo, in seguito alla Guerra civile che, dal ’36 al ’39, ne incendiò il territorio minandone le speranze. Eppure, il nostro non si è mai arreso. Nel clima culturale effervescente che si respirava in Europa in quegli anni, in particolare nella Ville Lumière, trovò la forza di ribellarsi concretamente al male, tanto che ogni sua opera, qualunque fosse il periodo, costituiva un ritratto non solo del suo stato d’animo ma della sua visione del mondo. Il tema della libertà come colonna sonora di un’intera esistenza, l’emancipazione dei ceti poveri, l’arte come forma di riscatto e la vita che si esprime in tutta la sua grandezza, persino di fronte alle tragedie: questi sono stati i capisaldi di un artista che ha sempre mescolato i vari piani, facendo del simbolismo la sua cifra stilistica e decostruendo un secolo all’interno di opere immortali. Don Pablo, del resto, ha viaggiato per novantuno anni senza mai risparmiarsi, vedendo cambiare il mondo davanti ai propri occhi e continuando a lottare, ogni giorno, con indomito spirito di resistenza. Non a caso, ha scomposto e ricomposto il Novecento, cogliendone l’irrequietezza, l’inquietudine permanente e la tensione sociale che attraversava i continenti, mescolando poi l’intimità con la politica e la narrazione degli eventi con le proprie riflessioni e i propri tumulti interiori. Diciamo che al giovane Picasso, rimasto tale per tutta la vita, anzi autore di un percorso inverso, quasi una voluta infantilizzazione, il mondo così com’è non è mai andato a genio; e allora, con l’ingenuità voluta di un sognatore dall’animo fanciullo, ha continuato a battersi con la forza della tela e del pennello, della passione e dell’impegno, riuscendo nell’impresa di raccontare le molteplici sfaccettature di un tempo quasi impossibile e di sferzare il potere come pochi altri hanno saputo fare. Nonostante questo, come detto, ha mantenuto il candore dell’infanzia, una purezza d’animo irrituale, una bellezza interiore tipica solo dei poeti e degli utopisti e una grinta che gli ha consentito di non chinare mai la testa di fronte a nessuna ingiustizia.
Cinquant’anni dopo, oltre alla meraviglia che ha saputo produrre, ci rimane il suo esempio di artista totale e ineguagliabile, capace di percorrere le stagioni e di narrarle con maestria, eleganza e quell’indignazione indispensabile per continuare a credere nella possibilità di redenzione dell’essere umano.
Una volta Picasso affermò: “A quattro anni dipingevo come Raffaello, poi ho impiegato una vita per imparare a dipingere come un bambino.“ In questa frase è racchiusa la sua essenza, la sua immensità, il suo testamento spirituale. In poche parole, il motivo per cui non ci limitiamo a stimarlo ma lo consideriamo un fratello e un compagno di lotta.
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