La grande letteratura si ammanta di parole e gesti che tuttavia mai potremmo udire dalle pagine de “Il sogno di un uomo ridicolo” scritto da Fëdor Dostoevskij nel 1877, ma assolutamente attuale. A dare corpo e voce nella pièce omonima al grande romanziere russo è ora Gabriele Lavia, attore di punta di un teatro classico rivisitato con intelligenza e profonda conoscenza dell’arte di tradurre in scena ciò che la mente di un genio ha prodotto sulle pagine. Frequentatore assiduo delle sue opere e di questa in particolare, Lavia ha dato vita a una performance di grande impatto, indossando con pathos e dedizione una camicia di forza dentro la quale vaga vacillante e misero, sollevando polvere dal palco completamente ricoperto di materiale terragno, posizionando agli estremi di una diagonale di spalle a destra il manichino di una bambina a grandezza naturale con le braccine tese in un implorante gesto d’aiuto e di fronte a sinistra una scrivania coperta di libri e una poltrona Voltaire. L’ingresso in scena di un alter ego che lo rappresenta, un sapiente gioco di luci e un delicato tappeto sonoro completano la sinergia di questi semplici e potenti elementi, su cui domina la complessa e tormentata figura del protagonista: l’uomo che si sente ridicolo e che si sente trattato dagli altri come ridicolo. Questa condizione è diventata insopportabile. Meglio la morte.
Siamo al cospetto di un’emozionante riflessione sulla disperata condizione umana che incarna il reietto, forse pazzo, aspirante suicida, che dopo avere accarezzato in lunghe notti insonni la terribile idea del suicidio e una pistola che giace sulla scrivania e che avrebbe suggellato il gesto supremo, indugia nel ricordo di una supplice bambina scacciata malamente e così un attimo prima di spararsi alla testa si addormenta sul più bello, diremmo in una fiaba. Questo atto unico a cui assistiamo tuttavia poco ha di favolistico, anche se il corpo centrale dell’opera è un sogno, dove l’uomo si spara al cuore, muore, ma ritorna a vivere in un pianeta gemello della Terra, dove viene condotto recalcitrante da una misteriosa creatura e inizialmente accolto e apprezzato dai suoi felici e innocenti abitanti, poi inevitabilmente corrotti dalla sua condizione degradata, che tuttavia epifanicamente gli rivela la verità: l’umanità non è condannata alla malvagità. Lo ha salvato il rammarico per avere scacciato la bambina che implorava aiuto e un sogno. Del resto la vita che cos’è se non un lungo sogno?
Si chiede l’uomo, avvicinandosi alle istanze poetiche di Calderon De La Barca e abbracciandone le speranze di un’umanità migliore. Entrambi i letterati coltivano il sogno di una Terra dove esiste la bontà degli uomini, capaci di salvarsi dal ridicolo di un’infima condizione da cui vanamente l’uomo aveva tentato di riscattarsi con la morte, fuggendo dalla gabbia che inesorabilmente lo imprigionava. L’affascinante monologo scorre su un’affabulazione fitta di ripetizioni intrecciate a rimandi, riferimenti, magistralmente interpretato da un intenso e maturo Gabriele Lavia, che ha anche finemente curato la regia, rendendo fulgida questa amara riflessione sulla esiziale natura degli uomini, stretti tra la sofferenza e il conseguente degradarsi, affacciati al buco nero da cui veniamo ipnoticamente risucchiati, in un’incessante involuzione che non lascia spazio alla speranza, se non in un finale che ribalta tutto, per non morire dentro. Il mancato suicidio diventa una speranza di vita, uno sguardo positivo alla natura degli uomini che non può essere volta esclusivamente al male. Oscilliamo pericolosamente tra il ridicolo e l’indifferenza e quando stiamo per toccare il fondo può accadere che ritorniamo in superficie. E’ bastata una richiesta d’aiuto di una povera bambina supplichevole per spalancare all’aspirante suicida nuovi orizzonti. Lavia ha saputo cogliere e dispiegare il disagio esistenziale del grande scrittore russo, la condanna a cui siamo consegnati e a cui il suo spirito indomito si ribella, la sconfitta e la lacerazione a cui opporsi è difficile, ma non impossibile, la forza e la fragilità dell’uomo, il suo rifiuto della vita così com’è, la sua volontà di riscatto, in un magico fiume di parole che designa l’opera letteraria e teatrale suggello e balsamo delle umane sventure.
“Quella bambina l’ho trovata. E io andrò! andrò!” conclude Dostoevskij-Lavia in chiusura. Una lectio teatralis ineludibile.
IL SOGNO DI UN UOMO RIDICOLO
di Fëdor Dostoevskij
traduzione e adattamento Gabriele Lavia
con Gabriele Lavia
e Lorenzo Terenzi
regia Gabriele Lavia
luci Giuseppe Filipponio
fonica Riccardo Benassi
produzione Effimera
Al Teatro Verga di Catania fino al 2 Aprile
L’uomo ridicolo vola in palco con uno straordinario Gabriele Lavia