BASTA VIOLENZA SULLE DONNE - 25 NOVEMBRE TUTTI I GIORNI

L’odio, la politica e il futuro 

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Nei due anniversari di cui ci occupiamo in quest’articolo è racchiuso il senso di una storia che viene da lontano. Una storia profondamente italiana e straziante, che scorre attraverso un periodo che ha cambiato, e talvolta sfigurato, il tessuto civico del nostro Paese. Fra il rogo di Primavalle e l’omicidio di Roberto Ruffilli, politologo di grande valore, artefice del concetto di “cittadino come arbitro” e ispiratore del processo riformatore avviato dall’allora segretario della DC e presidente del Consiglio Ciriaco De Mita passano quindici anni: tre lustri terribili, un tempo infinito, caratterizzato da stragi e attentati di segno opposto, fino a giungere al declino della politica e delle istituzioni che da allora, purtroppo, non si è più arrestato.
Aggiungiamo anche che la tragedia della famiglia Mattei, il cui padre, Mario, era il segretario della sezione missina del quartiere, portò con sé un’altra morte assurda: parliamo di Mikis Mantakas, il giovane militante del FUAN che venne assassinato davanti alla sezione missina di via Ottaviano, durante un’udienza del processo che vedeva imputati Achille Lollo, Marino Clavio e Manlio Grillo, i tre militanti di Potere Operaio responsabili del rogo dell’abitazione della famiglia Mattei nel quale morirono i fratelli Virgilio e Stefano, rispettivamente di ventidue e otto anni.
Da queste parti, non abbiamo mai cercato giustificazioni per alcun delitto: rosso o nero che fosse. Abbiamo sempre condannato le stragi fasciste, da piazza Fontana alla stazione di Bologna, passando per piazza della Loggia a Brescia, e i delitti di segno opposto. Non abbiamo mai accettato, e mai accetteremo, slogan che purtroppo all’epoca avevano una certa popolarità. No, “uccidere un fascista non è reato” non è ammissibile, proprio perché il fascismo è il male assoluto, il cancro che ha devastato per un ventennio l’Italia e le cui scorie sono ancora ben presenti fra noi. Per queste ragioni abbiamo il dovere di essere diversi e migliori. Non possiamo abbassarci anche noi alla ferocia e alla barbarie, non possiamo coltivare l’odio né, tanto meno, giustificarlo.
La scomparsa dei fratelli Mattei, al netto delle speculazioni politiche che ne sono seguite, costituisce un trauma collettivo, una ferita ancora aperta nelle nostre vite e nella nostra società, un abisso che ha segnato il nostro stare insieme e l’emblema di una stagione drammatica, nella quale a farla da padrona era la violenza, prima di lasciare il posto a un sentimento opposto ma, in realtà, complementare: il disgusto per la cosa pubblica.

Mezzo secolo dopo constatiamo con rabbia che anche un simile dramma è diventato oggetto di battaglia politica contingente, alla ricerca di una sorta di vendetta storica della destra, come se questa parte politica, che oggi governa il Paese e ha ancora il vento in poppa nei sondaggi, avvertisse una sorta di fragilità ideologica e di pensiero, come se non riuscisse a uscire dalla sindrome di Calimero, come se non sapesse esprimere pietà neanche per i propri morti, che poi sono anche i nostri, perché quando muore un ragazzo di ventidue anni o un bambino di otto starsi a dividere non ha alcun senso. Basti pensare che al capezzale di Paolo Di Nella (di cui lo scorso 9 febbraio ricorreva il quarantesimo anniversario della scomparsa), ormai morente, si recò l’allora presidente della Repubblica Pertini, simbolo della Resistenza al nazi-fascismo, esprimendo sincera compassione per un ragazzo la cui unica colpa era quella di credere in un’idea dalla quale ci sentiamo lontanissimi ma che in democrazia aveva comunque il diritto di esprimere, senza che nessuno lo aggredisse come invece, purtroppo, avvenne. Ecco, ci piacerebbe tornare a quei giorni, a quel senso di solidarietà, a quell’umanità autentica, a quella spontaneità sincera. Ci piacerebbe che la destra italiana imparasse almeno a deporre i fiori di fronte alle proprie lapidi e che dall’altra parte non si levassero le solite voci, che lasciano il tempo che trovano, per domandarci come mai abbiamo deciso di rendere omaggio alle vittime degli “altri”. La risposta è semplice: perché quegli “altri” siamo noi, in quanto il dolore non può avere una connotazione politica, altrimenti rischiamo di legittimare azioni che non hanno nulla a che spartire con la battaglia delle idee e molto in comune con la peggiore criminalità.
Uccidere un fascista è reato così come assassinare Ruffilli nella sua casa di Forlì. Sono forme atroci e inaccettabili di ferocia, è un modo per sottrarsi al confronto politico e per abbattere l’avversario anziché sfidarlo apertamente sul terreno dei pensieri e delle visioni. Primavalle e la tragedia dello statista democristiano sono, dunque, legate da un filo invisibile che attraversa un quindicennio di follia che ha finito con l’annientare la politica. Ora noi, a differenza di altri, che ne sanno poco e scrivono spesso in maniera strumentale, non pensiamo affatto che gli anni Settanta siano stati solo questo: sono stati, infatti, anche una straordinaria fucina di intuizioni, movimenti, conquiste democratiche essenziali, ribellioni pacifiche, rivolte appropriate e sacrosante, un moto dell’anima e una patria morale per coloro che li hanno vissuti intensamente, qualunque fosse la loro parte politica. Il guaio è che, con i propri eccessi e la scia di sangue che hanno lasciato dietro di sé, hanno generato anche un riflusso che è divenuto, infine, rifiuto per il bene comune, favorendo l’affermazione di una cultura individualista ed egoista dalla quale discende gran parte dei problemi che viviamo nel presente. Al tutto della politica si è sostituito il nulla della politica e della partecipazione civile, le sezioni di partito hanno ceduto il passo alle vetrine scintillanti, il senso di comunità si è dissolto in favore del monadismo e oggi ci troviamo a vivere in una società annientata e priva di punti di riferimento, più che liquida, per dirla con Bauman, aeriforme.

Ricordare i fratelli Mattei e Roberto Ruffilli, accomunarli nel dolore e nel doveroso omaggio significa, pertanto, riannodare i fili, prendersi per mano, ritrovare un tempo di cui abbiamo bisogno e, più che mai, rinnegare l’odio che ci ha ridotto così, questo fiume carsico di barbarie che talvolta riaffiora, magari sui social, e ci pone a confronto con la fragilità di un tessuto civico sfibrato e di una collettività che non si sente più tale.
Non sappiamo quale futuro ci attenda, temiamo non roseo, date le premesse, ma sappiamo anche quale debba essere la nostra parte: quella di chi costruisce e tende la mano, di chi rispetta il prossimo, di chi percepisce l’altro come un interlocutore anche quando i pensieri che esprime li riteniamo disdicevoli, di chi è forte della sua visione del mondo e non cerca di impedire a qualcuno di esprimere la propria, di chi sa che nel sangue annega la speranza e trionfa la crudeltà; insomma, abbiamo il dovere di essere pontieri, non ingenui ma nemmeno rassegnati alla dilagante cattiveria che vediamo sotto i nostri occhi. Perché la politica, come detto, è un bene comune, è ciò che distingue la democrazia da ciò che democrazia non è e abbiamo la necessità, nonché il dovere, di riappropriarcene.

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