La realtà esiste, gli eventi accadono, i fatti non sono proiezioni della nostra mente. Detto questo, le interpretazioni hanno un peso enorme nella percezione di ciò che ci circonda. Prendiamo la guerra in Ucraina. Quante facce ha questo avvenimento? Con ottime ragioni potete vederci una prova della prepotenza e dell’aggressività della Russia di Putin. Ha invaso un Paese sovrano con la sua «operazione speciale» feroce e allo stesso tempo dissennata. Oppure potete evidenziare le responsabilità dell’Occidente (leggi Stati Uniti) che non è riuscito certo a rassicurare, causa la progressiva espansione della Nato verso Est, una potenza rivale dotata di uno smisurato arsenale atomico. Oppure, ancora, potete focalizzare la vostra attenzione sugli enormi profitti dell’industria bellica mondiale (su entrambi i lati del fronte). Riflettere sui soldi che saranno spesi in armi di ogni genere negli anni a venire, risorse sottratte al sociale, una scelta che avrà pesanti ricadute sulle nostre esistenze, già segnate da inflazione e crisi energetica.
Potrei continuare, ma quella che voglio piuttosto evidenziare è la mia profonda insoddisfazione per la discussione pubblica che si è sviluppata sui media italiani. La complessità evidente nelle precedenti considerazioni è stata irrisa, banalizzata, tutto è stato ricondotto a un prendere posizione senza spazio per ulteriori riflessioni. È lo schema della «società dello spettacolo», qualsiasi evento viene ridotto a una «scelta di campo», come se assistessimo sempre a competizioni sportive davanti alle quali si deve urlare il proprio tifo. Così si sono sviluppati litigi sostanzialmente insensati (leggi Zelensky a Sanremo), si sono compilate fantomatiche liste di proscrizione di presunti dissidenti (analogamente a quanto accaduto in Russia con peggiori conseguenze), si è promossa una sospensione della facoltà di ragionare. Di riflettere, ad esempio, seriamente sull’articolo 11 della nostra Costituzione, il suo ripudio della guerra come strumento di risoluzione delle controversie internazionali. È ancora valido? Lo dobbiamo considerare superato? Con quali procedure l’abbiamo deciso? Si è generata così una sottospecie di guerra culturale in cui, sui social come nei media tradizionali, il presentarsi come «campioni» di uno schieramento si è trasformato in un espediente per mettersi in mostra. Si sa che, nel sistema comunicativo contemporaneo, per accrescere la propria visibilità non c’è niente di meglio di una disputa feroce con un altro personaggio noto. E così è stato.
Pratiche degenerative in alcuni casi animate da intenti nobili, in altri no. Per esempio è sicuramente lodevole schierarsi dalla parte degli aggrediti, è un imperativo morale contrastare la prepotenza di chi invade uno stato sovrano. Detto questo, in un Paese che riflette, gli strumenti da adoperare per promuovere questa solidarietà devono essere oggetto di approfondita discussione. In Germania questo è accaduto. Il filosofo Jurgen Habermas, una delle voci più importanti del nostro tempo, ha ricordato come fosse ben chiaro al tempo della Guerra Fredda che uno scontro con una potenza nucleare non può essere «vinto» in nessun senso ragionevole, almeno non con la forza militare entro i chiari termini di un conflitto caldo. Lui ha parlato di una «linea rossa» invalicabile, quella del coinvolgimento diretto dell’Occidente nella guerra, invitando a non farsi guidare dall’emotività ma dalla consapevolezza storica. Puoi impegnarti a fianco di chi si batte per la propria libertà, ma fallo considerando tutti i termini del problema. Tutte cose di cui è arrivata da noi solo un’eco sbiadita.
Ma è accaduto pure di peggio. Ai primi di febbraio, rientrando dall’Africa, papa Francesco ha detto: «La vendita di armi è la peste più grande. Il mondo è in guerra, fermiamoci». Sui principali media italiani parole così importanti sono state sostanzialmente censurate. La visione del Pontefice riguarda l’intero pianeta, «la globalizzazione della violenza», la «terza guerra mondiale a pezzi». Francesco invita tutti, ma proprio tutti, a fermarsi. E questo da noi non piace, potrebbe togliere slancio a un impegno bellico. Resta una domanda: non si ascolta il Papa perché si sottovalutano le autorità religiose? No, è proprio per il merito di ciò che dice, per il contenuto delle sue parole. Serve una prova? Negli stessi giorni il Segretario dell’Onu ha lanciato l’allarme che «una escalation del conflitto Russia-Ucraina possa portare verso una guerra più ampia». António Guterres ha affermato che il rischio di un’apocalisse nucleare è il più alto di sempre, ma anche delle sue preoccupazioni si è persa traccia nei telegiornali e sui mezzi di comunicazione più influenti.
Per ragioni complesse, che qui non abbiamo spazio di indagare, da noi è prevalsa la narrazione che porta alla piena identificazione con l’Ucraina aggredita. Una posizione che ha un suo senso logico ed etico, ma che non fa intravedere in Europa alcuno spazio per la diplomazia e per il negoziato. Ci siamo trovati senza alcun ruolo davanti alle mire di un aggressore che fa del vittimismo e della sopportazione dei sacrifici del suo popolo un’arma propagandistica e militare. Abbiamo lasciato spazio a mediatori di dubbia qualità, come il presidente turco Erdogan. Abbiamo «lasciato soli» persino i generali Usa, prudenti sui pericoli dell’escalation e consapevoli della consistenza degli arsenali del «nemico».
Ma, parlando di comunicazione, l’aspetto che più mi inquieta è un altro. Qual è la verità della guerra? Diceva Vasilij Grossman, grande scrittore ebreo ucraino di lingua russa, che essa sta nel sangue, nel fango, nella sofferenza. Noi che diciamo di vivere nell’età dell’informazione non sappiamo invece nemmeno quante siano le vittime di questo conflitto iniziato da Putin il 24 febbraio 2022. Non sappiamo quanti civili sono morti, quante giovani vite di militari di entrambe le parti sono state cancellate nel corso della «Operazione Speciale». Il costo umano viene nascosto, non se ne parla, come non si dice una parola sugli enormi profitti dell’industria bellica globale, gente che al Papa non darà mai ascolto.
Per questo i popoli devono far sentire la loro voce. È in corso una «inutile strage», si rimetta in campo la diplomazia. Prima o poi si arriverà. I Greci chiamavano phronesis (φρόνησις) la saggia prudenza capace di indirizzare una scelta. I media che campano di emozioni fanno tutt’altro. Dobbiamo rimettere il rispetto per l’umano al centro del nostro orizzonte. Come spiega il filosofo francese Edgar Morin, sostenere che bisogna battersi fino alla fine richiede una risposta alla vera domanda: dov’è la fine?
Fonte il Messaggero di sant’Antonio
Foto di copertina © Doriano Solinas