Le parole scritte, più di quelle pronunciate a voce, devono essere esatte, soppesate, plasmate, incastonate. Lo sanno bene gli scrittori e soprattutto i traduttori, impegnati nel delicato compito di restituire non solo il senso ma anche il ritmo, lo stile, il suono di una lingua talvolta assai diversa da quella originale. E dunque lo sa bene l’inglese Simon Leyland, traduttore per professione, protagonista de Il peso delle parole, l’ultimo gioiello che Pascal Mercier, scrittore e filosofo svizzero, regala ai lettori attraverso Fazi Editore che si aggiudica uno dei testi più densi e impegnativi degli ultimi anni.
Si tratta di un romanzo di indiscutibile bellezza, ma un simile giudizio sarebbe riduttivo e non spiegherebbe a pieno il senso dell’operazione, incredibilmente ardua e perfettamente riuscita, effettuata dall’autore e consegnata ai lettori italiani nell’accuratissima traduzione di Elena Broseghini. Alle parole è attribuito il senso stesso dell’esistenza degli esseri umani, perché le parole possono contrastare l’inganno e l’illusione del tempo, perché sono capaci di invertire una rotta programmata o di illuminare vicoli oscuri, perché sono coltelli e garze, risate e pianto. Le parole possiedono il peso corporeo e massiccio del significato e quello leggero e immateriale del significante che, in questo caso, sembra quasi ossessionare il protagonista che resta ammaliato dai suoni e dai ritmi e coltiva il sogno adolescenziale di imparare tutte le lingue dei paesi che si affacciano sul Mediterraneo.
La storia del protagonista, arricchita da sottotrame che si intersecano per confluire in un disegno unitario, si potrebbe raccontare in poche righe, nonostante il cospicuo numero di pagine del volume, ma ancora una volta incapperemmo in uno sterile tentativo di semplificazione di una materia magmatica che si nutre di linguistica, di filosofia, di narratologia facendo coesistere l’impianto argomentativo e la lucidità assertiva del saggio con la gradevolezza della scrittura creativa. Si trovano dunque molte digressioni colte che potrebbero sembrare un appesantimento superfluo per la storia e che invece ne costituiscono la possente spina dorsale per la fecondità degli stimoli offerti.
Traduttore di professione e poi erede della casa editrice triestina appartenuta all’amatissima moglie morta in giovane età, il sessantenne Leyland, affetto da terribili emicranie che gli tolgono momentaneamente, quasi con uno spietato contrappasso, l’uso della parola, si ritrova ad affrontare una terribile diagnosi ̶ in un’età in cui non si è ancora disposti a lasciare la vita a cuor leggero ̶ che muterà le sorti della sua vita, ma il caso, che sembra giocare un ruolo determinante nelle traiettorie frastornanti e imprevedibili seguite dagli esseri umani, mescolerà le carte e aprirà il sipario su nuove ribalte in cui agiscono personaggi che mutano a loro volta, alcuni cambiando pelle altri riappropriandosi di ciò che sembrava ormai oggetto di scarto. L’agguato costante delle scelte, quelle già fatte e quelle ancora da fare, è affrontato con bruschi scossoni o impercettibili movimenti e si cerca di comprendere quanta e quale libertà si nasconda dietro le decisione prese. Ciò che siamo, che facciamo, che mostriamo è frutto di piena consapevolezza o il caso si intromette fino a negare l’illusione del libero arbitrio? O è solo attraverso la letteratura che può giungere la libertà per chi riesce a nutrirsene?
Frattanto la lente d’ingrandimento puntata sul protagonista ne rivela la capacità introspettiva e il bisogno di comprendere se e in che modo la vita possa conservare ancora un senso dopo il dolore della perdita, intesa qui non solo come lutto, e quindi come vuoto emotivo lasciato da una compagna con la quale aveva vissuto in simbiosi, ma anche come perdita dei riferimenti professionali che avevano scandito il tempo di un uomo apparentemente solido e strutturato.
Il tempo in realtà è l’altro grande protagonista del romanzo, percorso in tutte le sue potenzialità e forme, memoria più volte attraversata e scenario futuro da scoprire, tempo da razionare o da dissipare, da diluire e da assaporare, da cancellare e da dimenticare, tempo che rivendica il suo presente come vera essenza dell’adesione alla vita, tempo sempre e comunque oggetto di riflessioni penetranti che appartengono ad ogni individuo oltre che al personaggio e all’autore. Mentre il passato giunge a ondate in ricordi sparsi e frammentati sui quali tornare più volte aggiungendo o sottraendo dettagli ed emozioni, l’intervallo di vita oggetto della narrazione, quasi un anno in particolare, vede muoversi l’uomo nei luoghi dell’anima, in particolare Londra e Trieste con i loro scorci di luce cangiante e le loro atmosfere singolari e avvolgenti, due luoghi distinti per due vite diverse che troveranno infine la loro spontanea fusione.
Leyland ha due figli, Sofia e Sidney, dei quali seguiamo i tortuosi percorsi che porteranno a nuovi inizi, come se l’evento che ha coinvolto il padre avesse causato ripercussioni inevitabili nei loro vissuti, un po’ come gli ampi cerchi prodotti da un sasso gettato in uno stagno.
Un piccolo drappello di personaggi indimenticabili, ad ognuno di essi Mercier dedica tanta attenzione e cura da poterne ricavare materia per innumerevoli altri romanzi, incrocia la propria vita con quella del protagonista: Andrej Kuzmìn, un uxoricida russo che occupa le sue giornate nella colossale opera di traduzione di un testo che dovrebbe in qualche modo avere effetti taumaturgici sul proprio doloroso malessere; Kenneth Burke, vicino di casa solitario, talentuoso musicista (non per niente la musica fa capolino come altro linguaggio percorribile) ed ex farmacista reo di aver distribuito illegalmente farmaci senza prescrizioni per pura compassione, che diverrà amico intimo e fonte di proficuo confronto; Francesca Marchese, scrittrice affermata in crisi creativa ed esistenziale; Paolo Michelis, un insegnante precario che dedica dieci anni della propria vita nella composizione del suo personalissimo capolavoro. Quasi tutti scrivono, alcuni per rincorrere il successo, com’è naturale e giusto che sia, ma l’impressione che emerge con forza è che scriverebbero lo stesso, per se stessi, per continuare a manovrare significati e significanti che anche da soli possono garantire un senso allo scorrere dei giorni.
Il peso delle parole si profila, dunque, come un trattato esauriente sulla scrittura in tutte le sue declinazioni, dal rovello che accompagna il lavoro del traduttore, messo a nudo e sviscerato come raramente si fa per questa operazione spesso orfana dell’attenzione della critica e del lettore, al processo creativo vero e proprio, analizzato strada facendo attraverso la stesura di un racconto (e l’illustrazione dei processi narratologici insiti in esso, come la scelta della voce narrante, del punto di vista, del ritmo narrativo) che il protagonista scrive per trovare “le sue personali parole”, come gli era stato raccomandato dallo zio erudito di cui eredita la bella dimora inglese, sino ai meccanismi editoriali che portano a compimento il processo di elaborazione.
E poi c’è posto anche per la scrittura privata, quella intima che non necessita di visibilità, come le struggenti lettere-riflessioni nelle quali continuare il dialogo con la moglie Livia che nemmeno la morte ha spezzato, quella che talvolta è più vera, necessaria e gratificante per chi cerca in essa una dimensione di autenticità da contrapporre alla recita costante del vivere quotidiano.
La vita o si vive o si scrive diceva Pirandello e il nostro Leyland, come alcuni dei suoi compagni di viaggio, sembra indugiare in questa affermazione fino ad aderirvi in modo più o meno consapevole. Da qualunque angolazione la si guardi, la scrittura appare come un atto in sé monumentale, una cerimonia sacra, una terapia dolorosa, un rito per pochi iniziati capaci di dedicarvi le ragioni e il tempo della propria esistenza. “E all’alba spesso mi ritrovavo seduto alla scrivania e pensavo: foss’anche questo l’ultimo giorno, vorrei passarlo con le parole”.
Mercier aveva già avviato i suoi lettori con Treno di notte per Lisbona, altro indimenticabile romanzo di commovente bellezza, ad una scrittura profonda, avvolgente, complessa ma perfettamente fruibile a più livelli, e qui la ritroviamo, se possibile intensificata dal più ampio respiro dettato dalle quasi seicento pagine che scrutano le pieghe dell’animo di Leyland e dei tanti altri personaggi proposti, dietro i quali sembra di intravedere lui, l’autore, che ad ognuno presta un gesto, una parola, un pensiero, perché, si sa, chi scrive finisce con lo scrivere di sé.
Appartato nel suo angoletto, Cesare Pavese, autore amatissimo tradotto da Leyland, sorride sornione, probabilmente pago della dedizione che Mercier gli ha dimostrato. Anche lui conosceva il peso delle parole e il duro mestiere di vivere con esse e per esse.
Il peso delle parole
Pascal Mercier
Fazi Editore
20,00 €
pp.586
La cerimonia sacra della scrittura. “Il peso delle parole” di Pascal Mercier, ed. Fazi