Jannacci, Califano, Trovajoli e Beppe Fenoglio: temiamo che quegli anni non torneranno più. Non tornerà più quel genio, quella grandezza, quell’irriverenza, quella capacità di raccontare il mondo con ironia e dolcezza, quella classe nel comporre e nell’inventare storie, quell’analisi lucida e disincantata delle cose del mondo e quel brio che rendeva allegre persino le tragedie. Perché questa era la cifra esistenziale dei quattro personaggi cui rendiamo omaggio, di cui ricorrono quest’anno anniversari importanti, grazie ai quali è possibile riscoprirne l’opera e farla conoscere alle nuove generazioni.
Enzo Jannacci è stato il cantautore dell’altra Milano, il cantore di Vincenzina davanti alla fabbrica, della banda dell’Ortica, del fiore di campo che è nato in miniera, dell’emancipazione delle classi subalterne e di una narrazione intensa e profonda del boom economico, preso in considerazione anche nei suoi aspetti meno glamour. Insieme a Gaber, Dario Fo e altri miti di quella generazione, era l’anima della Milano del Derby, della Comune e di una capitale morale che era davvero tale, prima del degrado, di Tangentopoli e della disfatta collettiva cui abbiamo assistito negli ultimi decenni.
A Enzo Jannacci dobbiamo non solo la levità delle sue riflessioni ma anche la forza straordinaria delle sue battaglie, mai gridate ma potentissime, proprio come accadeva con Gaber e con il suo teatro canzone: una sferzata al potere ma anche ai tic, alle frasi fatte e ai luoghi comuni di una sinistra che stava abbracciando l’autoreferenzialità e dimenticando il mondo.
Franco Califano, dal canto suo, era una sorta di Rimbaud. Senza regole, con alcuni rapporti d’amicizia alquanto discutibili, folle in tutto, sempre e senza pentimenti, era comunque un personaggio singolare e degno della massima attenzione. Le sue canzoni, infatti, hanno segnato un’epoca, delineato nuovi orizzonti, raccontato storie e creato dei modi di dire che resteranno nel tempo. Perché il “Califfo” non aveva nulla di normale, non la sopportava proprio la normalità, non accettava gli schemi precostituiti e non si poneva il problema di trasgredire: la trasgressione era, anzi, la sua stessa ragione di esistere. Così ha vissuto e così se n’è andato, stroncato da un arresto cardiaco a soli settantaquattro anni, senza fermarsi mai, senza darsi pace, senza concedere tregua a nessuno e lasciando dentro ciascuna e ciascuno di noi una sensazione di infinito. Tanta era la sua grandezza, altrettanto è stato il dolore per la perdita. La nostra impressione, magari ingenua, è che tutto ciò che aveva da dire lo avesse ormai detto, e per uno come lui vivere ancora senza poter essere protagonista sarebbe stato inconcepibile.
Per quanto concerne il maestro Armando Trovajoli, basti citare il “Rugantino” di Garinei e Giovannini e alcune colonne sonore memorabili per comprenderne la cifra artistica. Basti pensare a come seppe mescolare la Rumba con il terribile inno nazista in “Una giornata particolare”. Basti pensare, infine, a quanta meraviglia ha saputo generare in novantacinque anni di vita: un esempio di intellettuale impegnato, al servizio della cultura e delle sue idee, che poi sono anche le nostre.
Un discorso analogo vale per Beppe Fenoglio, autore simbolo delle Langhe, la cui essenza è racchiusa in una frase scritta all’interno de “I ventitré giorni della città di Alba”: “Sempre sulle lapidi, a me basterà il mio nome, le due date che sole contano, e la qualifica di scrittore e partigiano”.
Quattro anniversari, oltre un secolo di storia, molteplici ambiti e la ragion d’essere del nostro Paese, che avrebbe ancora tanto da dire e da dare, nonostante il declino cui sembra essersi inesorabilmente avviato.
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