Sferzante. A tratti gelido. Dirompente. Come la pioggia che per tutta la mattinata è caduta su Venezia. Il discorso pronunciato da Dario Calimani, presidente della Comunità ebraica, ha lasciato il segno e invaso i cuori e le menti di chi ha voluto celebrare la Festa della Liberazione in Campo del Ghetto uno dei simboli della disumanità fascista e della sua crudeltà.
«Senatore La Russa chi non sa o non vuole sapere che cosa è stato il fascismo venga in questo Ghetto e glielo spiegheremo».
È qui che si è concluso il percorso della Memoria organizzato dalla Sezione Anpi Sette Martiri. È qui che sul palco ha parlato la presidente Enrica Berti, seguita dal sindaco Luigi Brugnaro.
Berti ha fatto sue le parole del capo partigiano Bulow, Arrigo Boldrini “abbiamo combattuto assieme per riconquistare la libertà per tutti: per chi c’era, per chi non c’era e anche per chi era contro” invitando tutti a camminare per la città guardando e ri-conoscendo i segni della barbarie fascista, dalle pietre di inciampo a ricordo degli ebrei deportati e ammazzati alle lapidi in memoria di chi ha dato la vita “resistendo”.
In Ghetto, il Sindacato giornalisti Veneto c’era, in rappresentanza anche di Articolo 21, a ribadire che tra i primi obiettivi del fascismo, al pari di ogni dittatura, ci sono stati e restano l’oppressione della stampa, il controllo dei mass media, l’azzeramento del pluralismo, l’uccisione di qualsiasi voce contraria al pensiero unico. E che non è certo un caso se le madri e i padri costituenti hanno voluto inserire nella Carta fondante della nostra Repubblica quell’articolo 21 che tutela la libertà di espressione e che recita “la stampa non può essere soggetta ad autorizzazioni o censure”, fissando nel contempo insieme al dovere di cronaca, il diritto delle persone a essere correttamente informate.
La memoria è importante. La storia ancor di più. Quest’ultima non la si può riscrivere e non la si può cambiare. La storia non ammette ignoranza ed esige studio e accuratezza. Presuppone uno sguardo capace di prendere le distanze da ciò che il passato ha consegnato nella sua oggettiva barbarie e ignominia.
«Il giudizio della storia su nazismo e fascismo è irrevocabile, e non è ritrattabile». Le parole del professor Calimani non vanno riassunte vanno lette nella loro interezza.
Le riportiamo di seguito.
“Nel celebrare il 25 aprile, il primo dovere è onorare le vittime del fascismo e coloro che hanno dato la vita per liberarcene. Circa 60mila partigiani civili e militari morti, mezzo milione di morti italiani in totale. Queste le cifre della Seconda Guerra mondiale che non si possono dimenticare. La causa: il fascismo.
Ma il 25 aprile lo teniamo vivo se, oltre che viverlo come una bella memoria, riusciamo a ispirare la nostra azione e la nostra vita ai valori della democrazia, della libertà, della solidarietà, della giustizia, dell’etica e del rispetto dell’altro.
Siamo il paese che è uscito dalla vergogna di una guerra a carattere razzista, voluta da fascisti e nazisti, e non siamo ancora usciti dal grande equivoco della nostra corresponsabilità nazionale. Ai 246 morti sterminati ad Auschwitz, i cui nomi sono incisi su quelle assi di legno (ndr. in Ghetto), nessuno darà mai giustizia. Gli assassini e i loro complici hanno girato fra di noi spavaldi e tranquilli fino alla loro morte. Forse qualcuno si attarda ancora fra di noi. E qualche loro erede e discendente va ancora orgoglioso della loro eroica disumanità. Chi non sa o non vuole sapere che cosa è stato il fascismo venga in questo Ghetto e glielo spiegheremo. Gli faremo leggere i nomi, a uno a uno, e gli racconteremo le loro storie. Che vengano in questo campo a rivendicare l’innocenza e il bell’ideale repubblichino degli assassini.
Ogniqualvolta risalgo su questo palco mi chiedo se vi sia un modo per me di manifestare una sobria diplomazia. Se fra alte cariche dello Stato c’è ancora chi non ha la volontà di fare una scelta priva di ambiguità sulla storia del nostro paese, io lo invito a venire in questo Ghetto a spiegarci quale sia la sua idea di fascismo, e noi spiegheremo allora, una volta di più, che cosa, in questo Campo di Ghetto e in quella Italia, è stato il fascismo per noi. E noi ci chiederemo allora chi, in questo nostro paese, rappresenti anche noi e la nostra storia di ebrei italiani, e ci chiederemo anche se dovremo considerarci ancora una volta esclusi dal corpo politico e sociale del paese.
Stiamo ancora a discutere di antifascismo sì e antifascismo no, si solleva il dubbio che la nostra Costituzione sia davvero antifascista, cercando di evitare così al fascismo una condanna unanime e inappellabile. Che insegnamenti, che educazione e che eredità storica e morale vogliamo lasciare ai nostri figli? Chi non riconosce il valore dell’antifascismo si pone fuori dalla nostra Costituzione, non ne riconosce i valori fondanti di democrazia, di libertà e di giustizia.
Siamo ancora qui a discutere delle cose buone del fascismo e a chiederci se la Resistenza sia stata un fenomeno criminale o il movimento cui persone, di ogni fede politica e religiosa, hanno partecipato, salvando così l’anima e la coscienza di un intero popolo. Ma c’è chi ancora fa le pulci agli eventi di via Rasella e al massacro delle Fosse Ardeatine, presentando i nazisti come una banda musicale di pensionati, e i fascisti generosi boy-scout, piuttosto che riconoscendoli come criminali di una dittatura criminale da condannare senza attenuanti.
Questi non sono segnali volonterosi da parte di chi voglia perseguire la ricerca onesta e riconciliante di una memoria riconosciuta. Il giudizio della storia su nazismo e fascismo è irrevocabile, e non è ritrattabile. Eppure siamo ancora costretti a giustificare e a difendere il percorso che ci ha portato a questa nostra faticosa libertà, come se il diritto alla libertà avesse bisogno di essere giustificato e difeso dall’attacco di chi, mentre gode dei benefici e del lustro concessogli dalla democrazia, rimpiange un passato italiano di prevaricazione, di bellicismo e di razzismo.
Forse non tornerà il fascismo dell’orbace e del manganello, dei campi di confino per gli oppositori politici, delle Leggi razziali, e delle deportazioni ai campi di sterminio per ebrei, zingari, omosessuali e politici, ma gli scivoloni del linguaggio politico, che recuperano valori sepolti dalla storia, vergono con poca possibilità di dubbio verso derive inquietanti.
Un linguaggio che ci somministra di continuo affermazioni insultanti per la verità storica e per il vivere civile, affermazioni poi strumentalmente smentite e il cui senso viene addebitato alla malevolenza interpretativa di chi le ascolta.
Ci si chiede se siano dei test volti a saggiare la capacità di reazione del paese di fronte alla menzogna e alla deformazione della sua stessa memoria. Nel frattempo, qualche assalto alla sede di un sindacato o di un partito richiama tempi infausti, e chi la storia ha reso ipersensibile sente brividi alla pelle.
Non coltiviamo nostalgie comuniste o sovietiche, insolenza di cui ci ha voluto onorare un recente senatore della Repubblica. Siamo invece convinti e indefettibili antifascisti, che hanno pagato sulla pelle delle loro famiglie, della loro Comunità e del loro popolo l’orrenda criminalità del fascismo. Venga anche lui, il senatore, con noi, in questo Ghetto, e glielo spiegheremo.
Anziché di crisi economica, di lavoro, di giustizia sociale, di evasione fiscale e di lotta al malaffare e alle mafie si sposta l’attenzione del paese su problematiche di sostituzione etnica, di sovranismo linguistico, e di revisione storica che mira incomprensibilmente a rivalutare le miserabili e nefaste glorie del fascismo. Si rinominano strade e piazze a gerarchi e ducetti, si dedicano busti e monumenti ai colonizzatori, compensandoli magari con qualche targa alle vittime, senza mai incidere peraltro i nomi dei carnefici e della perversa distopia che li ha ispirati.
Sono tutte prove di silenziamento della memoria, che non potremo mai accettare. Non ci basta che ci si dica: ci dispiace per le leggi razziali.
Parlare di sostituzione etnica, anche fosse davvero un malinteso, significa richiamare l’ideologia della purezza del sangue e della razza pura. Bene, noi ebrei veneziani siamo una sostituzione etnica compiuta cinquecento anni fa dalla illuminata Repubblica di Venezia. Credo che oggi non vi sia in questo Campo di Ghetto un veneziano non ebreo più veneziano di noi ebrei veneziani.
Parlare di sostituzione etnica significa far leva ideologica sul contrasto fra un noi e un loro, anziché sull’idea che un paese lo si costruisce e lo si preserva impegnandosi a creare insieme una società giusta, onesta, laboriosa e costruttiva, in cui si è uniti dagli stessi diritti e dagli stessi doveri, una società solidale e coesa. Che aiuta chi ha bisogno di essere aiutato. Insomma, una illuminata democrazia. Dobbiamo produrre solidarietà e unione, anziché contrasto e conflitto umano, etnico, politico, sociale e religioso.
Si parla di riappropriazione dell’identità nazionale, come se identità significasse necessariamente chiusura sciovinista, suprematismo, pregiudizio e scontro. L’identità si può invece coltivare e preservare anche nel dialogo, – e crediamo che l’ebraismo veneziano ne abbia dato per secoli ampia dimostrazione –, l’identità si può coltivare e preservare nella convivenza pacifica e fertile, nel confronto e nella collaborazione, e soprattutto nel rispetto reciproco ed egalitario.
Un’identità che non rinuncia a essere, e rispetta al tempo stesso l’identità altrui, senza pretese di superiorità, senza pretendere di imporre agli altri i propri particolarismi, senza venir meno allo spirito umanitario e di partecipazione e cooperazione che danno stabilità e solidità alla struttura sociale. Non può essere solo un’affermazione retorica e di parte sostenere che la società si rafforza quando ci si preoccupa dei più deboli piuttosto che di tutelare i diritti e i privilegi dei più forti.
Il 25 aprile, festa della liberazione dalla dittatura e dal regime fascista, deve assumere anche il valore di liberazione dalle strettoie del disagio sociale. Ci rincuorano sempre e ci sono di ispirazione le parole illuminate del nostro capo dello Stato, il Presidente Sergio Mattarella.
Si può solo ribadire che l’unità nazionale, cui ci si richiama in questi giorni, può solo essere perseguita attraverso il riconoscimento unanime e indiscusso che il 25 aprile è festa di tutti, di tutto il popolo italiano. Senza eccezioni, senza riserve, senza esitazioni. È la data che ci ha liberato da un regime dittatoriale, e ci ha restituito la democrazia e la nostra dignità di uomini liberi.
Grazie agli alleati e alla Resistenza, il 25 aprile è stato il riscatto del popolo italiano dalla vergogna del ventennio fascista.
Alla denuncia del fascismo ci si sente rimproverare spesso il silenzio sui crimini di Stalin. Come se le vittime del fascismo e del nazismo fossero meno vittime grazie alle vittime dello stalinismo. Ma, garantita la condanna dei gulag e dei fatti di Budapest e di Praga, non possiamo fingere che il fascismo non sia stato un fenomeno disastroso di casa nostra da cui si cerca di distogliere lo sguardo rivolgendolo altrove. Ma disertare la festa della liberazione del nostro paese dal fascismo e dal nazismo non è il modo giusto per rendere giustizia alla memoria, non è il modo giusto di perseguire la coesione dello spirito nazionale. Non si può lasciar spazio al sospetto che qualcuno possa rimpiangere un mancato esito diverso della guerra.
Se non vogliamo dilaniarci, non abbiamo altra scelta che ripartire da un sentire comune, riconoscendoci tutti finalmente nella condanna netta e inequivocabile dell’ideale infetto del fascismo, che ha macchiato e insanguinato la nostra storia.
Il 25 aprile non può essere appannaggio dell’una o dell’altra parte. Alla destra come alla sinistra diciamo: non facciamone l’arena per un primato elettorale. Si tratta di salvare anima ed etica del nostro paese. Se vogliamo lasciare in eredità ai nostri figli lo spirito della libertà, della giustizia e della democrazia, non possiamo che riconoscerci nell’ideale comune dell’antifascismo.
Buon 25 aprile, e buona libertà!”
Dario Calimani
Presidente della Comunità Ebraica di Venezia