Questa fotografia mostra l’Aula Magna dell’Accademia di Belle Arti di Reggio Calabria, che si sta riempiendo di studenti accorsi ad ascoltare l’avvincente favola del cinema e di Federico Fellini. Un’iniziativa voluta a tutti i costi dal docente di Scenografia, Riccardo Perricone, e adottata con passione dal direttore Piero Sacchetti, felliniano non di complemento, entusiasta organizzatore di un evento che fosse in grado di attrarre gli studenti di tutte le discipline ma anche spettatori esterni, in un proficuo scambio tra Istituto e società civile. Per mio conto avevo suggerito di celebrare i quattro anniversari di quest’anno, dal momento che nel 2023 ricorrono i 60 anni di 8 ½, i 50 di Amarcord, i 40 di E la nave va e i 30 dalla scomparsa del celebre regista riminese, il più originale autore cinematografico del Novecento. Anzi, “Il più grande artista figurativo del nostro secolo”, mi aveva avvertito Francesco Arcangeli, docente di Storia dell’arte e allievo prediletto di Roberto Longhi, assegnandomi la tesi sul regista riminese, di cui aveva appena visto Satyricon restandone letteralmente folgorato e rapito.
Iniziava quel giorno di tanti anni fa la mia avventura felliniana che ancora non sembra volersi esaurire. E perché dovrebbe? È vero, i ragazzi del Terzo Millennio perlopiù non conoscono Fellini, pochi ne ricordano a stento il nome; sono abituati ad altri stimoli visivi poco o niente riconducibili alla sala cinematografica; eppure anch’essi quando si calano in un film del grande visionario, vorrebbero non riemerge più. Avvertono a istinto Federico come un loro contemporaneo, sperimentano un’emozione inaspettata.
Reggio Calabria, la perla di questa regione considerata la cenerentola d’Italia, è dotata esattamente come Cenerentola di una tale bellezza che solo un principe può aspirare ad impalmarla, e sta vivendo in questi giorni, e fino a oltre la metà di maggio, una salutare ubriacatura per la Settima Arte.
Insieme ai quattro titoli appena accennati, ho creduto di dover aggiungere Fellini Satyricon, un adattamento survoltato del romanzo di Petronio Arbitro, scrittore dell’età neroniana; Roma, l’affresco più immaginifico della Città Eterna, seconda patria dell’autore; Casanova, la memoria inventata nel grembo misterioso di Venezia; e Intervista, l’elegia della Decima Musa, la dichiarazione d’amore a Cinecittà, la fabbrica dei sogni, sua “vera” casa. Il film, quest’ultimo, a cui ho avuto l’onore e la gioia di partecipare come sceneggiatore.
Un gruppo ragionato di sette film che abbiamo intitolato La poetica visiva di Federico Fellini, con esplicito riferimento al metodo di indagine della Fenomenologia, appresa alla lezione di Luciano Anceschi leggendario titolare della cattedra di Estetica all’università di Bologna, e co-relatore della mia tesi di Laurea su Fellini. Un vero colpo di mano: vivevamo anni in cui il cinema, roba da cinematografari, era ancora escluso con cipiglio dagli Atenei.
Sette film per prendere a morsi la mela stregata della narrazione felliniana che ha letteralmente sovvertito il linguaggio cinematografico, introducendo nei film la figura dell’autore, l’io narrante, i sogni, la psicanalisi, la testimonianza privata, l’affrancamento da ogni servitù letteraria, raggiungendo vertici di espressione che potevano onorevolmente contendere la palma alle cosiddette arti maggiori, fino allora dominanti, letteratura, pittura, scultura, musica, teatro, danza, architettura.
A Reggio Calabria, dove più o meno duecento studenti e studentesse partecipano all’impresa, in presenza o da remoto, stiamo dimostrando, dati alla mano, che la cultura è tutt’altro che noia, come in tanti possono credere erroneamente, al contrario può risultare puro divertimento, immersione onirica, analisi eccitante della ‘sconosciutezza’, confronto, psicodramma. La cultura è l’esperienza più emozionante concessa alla creatura umana, una vertigine che una volta assaggiata non se ne può fare più a meno, come una droga. E Fellini, la sua opera, sono il veicolo più entusiasmante per questa corsa a perdifiato nell’inebriante galassia dell’arte come concezione dell’esistenza, affresco dei tempi, rivelazione dell’inconscio, e anche massimo presidio per l’individuo nell’affrontare la sua complicata navigazione nell’esistenza.
Leggere e guardare senza mai stancarsi. I libri sono gli indispensabili gradini per salire su podi sempre più alti. Scrive Michel Houellebecq: “Vivere senza leggere è pericoloso, ci si deve accontentare della vita, e questo comporta notevoli rischi.” Non è diverso per l’arte visiva. Quando chiesero a Fellini, ancora ragazzo in cerca di fortuna come avrebbe voluto definire sé stesso, rispose: “Due occhi spalancati sulla realtà”.
Bisogna vivere a occhi spalancati, a mente spalancata, apprendere il più possibile, tutto l’apprendibile, per volare alto e non cadere al primo inciampo. La cultura è un tramando, un passaggio del testimone da una mano all’altra, che ha permesso al genere umano di accumulare talmente tanto sapere da riuscire persino a evadere dal pianeta in cui ci credevamo confinati, e avventurarci nel cosmo. Sono i primi passi, chissà dove riusciremo ad arrivare. La scienza è un faro di luce ma in un fondale più buio della pece. Costituisce il nostro orgoglio. Nondimeno la fantasia, l’immaginazione, sosteneva Fellini – ma anche Einstein – sono le facoltà più alte dell’individuo umano, senza cui neppure la scienza potrebbe esistere. La fantasia permette di creare, dunque di renderci davvero simili a Dio. “Il mestiere di regista è il più bello del mondo perché mi consente di fare concorrenza al Padreterno”. Affermava Fellini con la luciferina insolenza di un animo profondamente religioso. Nella Storia della Creazione affrescata da Michelangelo nella Cappella Sistina è Dio per porge il dito ad Adamo con cui far scoccare la scintilla, quel principio spirituale che da pupazzo d’argilla lo renderà una creatura semidivina.
Nell’arte, nella letteratura, troveremo ogni risposta. E questo gli studenti dell’Accademia di Reggio Calabria l’hanno compreso con immediato trasporto, con spontanea partecipazione.
La visione di un capolavoro di Fellini serve a incontrare sé stessi ingoiando cinema come ambrosia, il cibo degli dei. Il dialogo che ne segue non risulta mai una discussione accademica, rovelli da Cineforum, ma autentiche immersioni nel mistero dell’espressione, dalla tecnica alla poesia. Un’apnea da cui si riemerge per espandere i polmoni al nuovo ossigeno, in preda a una sorta di allucinogeno mentale. L’arte si sa, causa alterazioni, rende inermi e veggenti. Di fronte a un’opera particolarmente potente si reagisce con la Sindrome di Stendhal, c’è chi perde i sensi per un eccesso di emozione. Da un film di Fellini si riaffiora come da un sogno ma anche da un trip lisergico, da un viaggio nell’altrove, da uno sconfinamento in altre dimensioni. E si vorrebbe continuare a parlare inesauribilmente, tanti sono gli interrogativi che urgono, gli stati d’animo da comunicare, le impressioni incamerate da chiarire, il bisogno di confrontarsi.
Le full immersion durano dalle nove della mattina alle sei di sera e ci si separa con un po’ di dispiacere. Tout se tient in Fellini, da un film all’altro il percorso si dirama ma l’alveo resta il medesimo, e alla fine si ha l’impressione di aver incontrato un battesimo, come quello che Sylvia, la stupenda Anita Ekberg, la svedese ghiaccio bollente dalle bionde chiome che entra in abito da sera nella Fontana di Trevi, impartisce a Marcello, affascinato e succube da quella bellezza impareggiabile che raggiunge entrando in smoking nella gelida acqua del monumento, balbettando sconsiderate frasi d’amore.
“È una festa la vita, viviamola insieme!” dice il protagonista di 8 ½ alla compagna della sua vita, invocando doni di libertà e non di clausura.
Quanto a lungo si potrebbe parlare di Fellini, il gigante buono che ha profuso nei suoi film libertà a consapevolezza per tutti noi, abbattendo ipocrisia e inautenticità, richiamandoci all’assoluta necessità di non rinnegarci mai. “L’unica possibile fedeltà è a noi stessi”, dichiarava. Altrimenti manderemmo in giro al nostro posto un pagliaccio, una controfigura, un replicante. E l’arte questo non lo sopporta, non lo ammette.
Non ci sono censure nei sogni, e dunque neppure nell’arte. A volte transitando anche attraverso apparenti facezie, si ride di gusto. Encolpio, il giovane protagonista di Satyricon in conseguenza di un gesto crudele e sacrilego ha perso la potenza virile e per riacquistarla dovrà andare a congiungersi con una maga che imprigiona il fuoco tra le gambe. Che trovata, eh? La spregiudicata metafora di un poeta. Ma la saggezza partenopea è arrivata assai prima di noi. Sapete come si denomina in napoletano il sesso femminile? Gli studenti non lo sapevano, forse neanche chi mi legge ne è al corrente; e allora ve lo dico io: purchiacchia. Che suona addirittura come un banale termine onomatopeico. E invece deriva direttamente dal greco antico Pyrkoilos: “Pyr” sta per fuoco e “Koilos” per faretra, fodero, guaina. Letteralmente “fodero infuocato”. Altri ipotizzano la derivazione da grotta, grotta infuocata. Potete scegliete a piacere, il significato non cambia e gli studenti dell’Accademia di Reggio Calabria hanno capito benissimo di che si tratta.
Bellezza e intelligenza. Reggio le possiede entrambe a dismisura.
Posso confessarvi una debolezza personale. La mia camera d’albergo, sul Lungomare, è affacciata sullo Stretto; nella costa dispiegata di fronte a me si estende un panorama imparagonabile a nessun altro scorcio del globo: verso destra la bianca città di Messina, verso sinistra l’Etna innevato. In mezzo, il mare ‘color del vino’ di Omero, Scilla, Cariddi, le Sirene, le Ninfe, Circe, Calipso, Polifemo, e Odisseo errabondo e senza pace. Come ognuno di noi. Ebbene la sera non trovo il coraggio di abbassare le tapparelle, ipnotizzato da quella vista, mesmerizzato, pervaso dal sacro timore di calare il sipario su un palcoscenico unico al mondo. Credo con assoluta convinzione che siamo la nazione più fortunata di questa Terra.