É passato un mese da quel 26 febbraio, data da segnare con un pennarello indelebile nel libro della storia delle migrazioni via mare verso l’Italia, ponte d’Europa. É passato un mese e ancora si recuperano cadaveri in quella spiaggia calabrese, ora disseminata di croci fatte con gli stessi legni ammuffiti di quel caicco che si è schiantato a soli 150 metri dalla agognata “libertà” , la libertà di vivere la propria vita, di crescere i propri figli in un mondo in cui non ci sono repressori e affamatori. Libertà di studiare, di ridere, di cantare, di indossare gli abiti che si vuole indossare, di esercitare il lavoro che piace, di pregare o di non adorare nessun Dio, di amare il partner qualsiasi esso o essa sia.
A Cutro oltre 90 persone hanno perso la vita inseguendo quella libertà che a noi sembra legittima e per la quale dovrebbe essere legittimo aprire canali legali di ingresso invece che costringere interi nuclei familiari a mettersi nelle mani dei trafficanti. Badate bene: la parola é “trafficanti” non “scafisti” che sono l’ultima ruota di un grande carro i cui vertici spesso giocano a carte neanche troppo coperte con i governanti di mezzo mondo.
La tragedia di Cutro é solo una delle decine avvenute fino a ieri ma a differenza delle altre ci ha messo davanti alle vittime che emergevano dai flutti mentre le telecamere filmavano ad un passo dalle operazioni di ricerca. Questo naufragio, ci ha fatto camminare sui resti di quel vecchio caicco e sugli abiti, scarpe, giocattoli, effetti personali, biberon. Pezzi di quelle vite perdute filmate da vicino, mentre le salme venivano spostate nel palazzetto dello sport di Crotone che si trasformava in un grande cimitero. In questi luoghi, per giorni, i reporter hanno vissuto, riportando le immagini di quell’orrore e di quel dolore nelle case degli italiani.
A differenza di tanti altri casi di vittime migranti in mare, qui abbiamo conosciuto i loro parenti, toccato il loro dolore, ascoltato le loro storie. Ed é così che abbiamo restituito loro una identità e la dignità di essere umano: quella negata in tutti questi anni in cui le persone costrette a viaggiare senza un visto sono state etichettate solo come “migranti” , senza una storia, senza una vita, senza un nome.
Purtroppo qualcuna di queste vittime ancora un nome non lo ha: tre sono dentro piccole bare bianche, altre risultano ancora disperse. Ma oggi noi sappiamo bene perché quelle 200 persone sono salite sul quel caicco partito dalla Turchia: come la giornalista afghana Torpekai Amarkhel che non poteva più vivere perseguitata dai talebani, come il giovane palestinese Uday Ahmed che voleva vivere la sua vita di 27enne senza metterla ogni giorno a rischio a Gaza e che prima di salire su quella barca, ha lasciato un video in cui invita tutti ad Amare “perché la vita é breve” .
Sappiamo insomma perché quelle barche continuano a partire piene di vite ma non sappiamo ancora perché quel caicco é stato lasciato arrivare sotto costa senza nessun tipo di intervento, nonostante fosse evidentemente sospetto. Le inchieste, più di una, dovranno fare maggiore chiarezza rispetto a poco esaustive e certamente “frustranti” risposte istituzionali.
Ci sono però tante altre vittime che non hanno avuto la stessa visibilità. Restano ancora troppe domande evase sul naufragio del 13 marzo: una settimana dopo Cutro, una barca con 47 persone sopra viene lasciata per ore al largo di Bengasi, ombreggiata da due enormi mercantili che non sono in grado di soccorrere. Dall’alto filma tutto l’aereo della Ong Sea Watch . Uno stillicidio che terminerà con il ribaltamento della barca e 30 persone disperse in mare . Tante altre persone come loro non ce l’hanno fatta. I loro corpi non li abbiamo visti galleggiare in una delle nostre belle spiagge come a Cutro, non abbiamo parlato con i loro parenti dispersi, non abbiamo sentito i racconti terrificanti dei sopravvissuti . Eppure anche queste erano persone.
Persone, che se sono salite su quelle imbarcazioni rischiando la vita, hanno avuto ciascuno di loro, come Torpekai o Uday un motivo, una spinta talmente forte che nessuno dovrebbe mai permettersi di giudicare. Oggi più che mai é infatti tempo di capire.