Intercettazioni segrete fino alla fine delle indagini; applicazione immotivatamente restrittiva del decreto sulla presunzione d’innocenza; ingiustificati automatismi per ottenere la cancellazione delle notizie dalla Rete sulla base di discutibili interpretazioni del diritto all’oblio. Per non parlare del sempre più spregiudicato ricorso alle querele “bavaglio”.
L’attacco al diritto dei cittadini ad essere compiutamente e correttamente informati non è mai stato così diretto e determinato come negli ultimi mesi. Con la scusa di porre un freno al cosiddetto “circo mediatico” e tutelare la dignità dei cittadini, si sta realizzando una preoccupante limitazione degli spazi dell’informazione, con particolare riferimento alle notizie scomode per chi ha le leve del potere, politico od economico che sia.
Negare il fenomeno della spettacolarizzazione dell’informazione non è certo possibile e i giornalisti sono chiamati ad un ulteriore sforzo all’insegna del rigore, della correttezza, della responsabilità, per evitare gli eccessi e garantire il rispetto del principio deontologico dell’essenzialità. Ma gli eccessi, per onore del vero, riguardano una parte marginale dell’informazione, a fronte di programmi d’intrattenimento (non giornalistici) privi di ogni regola, contro i quali nessuno muove un dito: che fine ha fatto il Codice di autoregolamentazione per i processi in Tv?
Le tanto sbandierate violazioni nella pubblicazioni delle intercettazioni, ad esempio, riguardano il passato: ciò che oggi diventa oggetto di servizi giornalistici sono conversazioni che possono essere lecitamente diffuse, in quanto contenute nelle ordinanze di custodia cautelare, oppure depositate agli atti dei processi. La prova che non vi sono violazioni è proprio nell’ultima proposta di riforma annunciata dal ministro della Giustizia, che vorrebbe cambiare la legge per rendere tutto segreto, almeno fino al processo.
In ballo non c’è la privacy dei comuni cittadini, come vuole far credere la politica per approvare provvedimenti ulteriormente limitativi della libertà. L’informazione si occupa di personaggi pubblici, per i quali il diritto alla riservatezza ridotto, come sancito dalla costante giurisprudenza della Cedu, la Corte europea dei diritti dell’uomo. Nei casi in cui vi sia interesse pubblico, il giornalista ha il diritto (e il dovere) di pubblicare le notizie, anche se sono coperte da segreto, scrivono i giudici della Cedu.
Ma il Governo italiano ha deciso di andare nella direzione opposta, proseguendo lungo la strada già intrapresa con il decreto presunzione d’innocenza, il 188 del 2021, che ha recepito in maniera immotivatamente restrittiva la normativa europea: la Direttiva n. 343 del 2016, infatti, impone soltanto l’obbligo di rappresentare con correttezza le notizie relative ad inchieste penali, arresti e condanne per evitare che le persone coinvolte vengano indicate come colpevoli prima di una sentenza definitiva. In Italia, invece, con la complicità di procuratori che hanno deciso di rivestire la casacca dei “censori” di Stato pur di non aver problemi, l’effetto del decreto 188 è che le notizie di nera e giudiziaria vengono fornite con il contagocce, a distanze di settimane e anche di mesi, prive di ogni particolare e senza nomi. E passi quando i nomi omessi sono quelli di qualche piccolo spacciatore o ladruncolo di supermercato (ma quelli, in realtà, continuano ad essere diffusi): la volontà è con tutta evidenza di far calare il silenzio su corrotti, evasori fiscali, bancarottieri (e così via) per i quali, tra l’altro, il carcere non è più un deterrente da quando le condanne fino a 4 anni di reclusione si scontano con pene alternative.
La tutela della dignità delle persone è un’altra cosa.
Nei sempre più rari casi in cui le notizie riescano ancora ad uscire, precise e complete, ci pensa la più recente norma in materia al diritto all’oblio a fornire uno strumento al potente di turno per riuscire a cancellare il suo nome dalla Rete. La riforma Cartabia (articolo 1 comma 25 della legge delega 134 del 2021) e il relativo decreto attuativo (art 64 ter del decreto legislativo 150 del 2022) ha infatti introdotto un inaccettabile automatismo per ottenere la deindicizzazione (e addirittura per impedire l’indicizzazione) di notizie riguardanti persone prosciolte o assolte, e i soggetti la cui posizione sia stata archiviata a conclusione di un procedimento giudiziario. Giusto per capirsi: pezzi della storia di piazza Fontana potrebbero essere “cancellati” perché alcuni imputati sono stati prosciolti, così come gli articoli sul processo per l’omicidio del giornalista Mino Pecorelli, per il quale l’allora presidente del Consiglio Giulio Andreotti fu giudicato e assolto. Un’assurdità. Il diritto all’oblio è sacrosanto, ma non può essere automatico e va sempre trovato il giusto equilibrio con il diritto all’informazione.
L’ultimo fronte di attacco ai giornalisti si realizza attraverso le sempre più numerose querele “bavaglio” presentate con l’obiettivo di intimidire, così come le richieste di risarcimento danni milionarie. Per frenare questo fenomeno, da anni viene chiesta l’adozione di una norma che preveda sanzioni per coloro i quali presentano querele palesemente infondate, per mettere in difficoltà le aziende editoriali e indurle a sospendere gli articoli che li riguardano. Ma ancora non si riusciti ad ottenerne l’approvazione, così come non è stata ancora modificata la legge sulla diffamazione dopo la sentenza 150 del 2021 con cui la Corte costituzionale ha dichiarato illegittima la previsione del carcere.
Per porre freno a questa fase è necessaria una mobilitazione non solo dei giornalisti, ma di tutta la società civile. A difesa di un’informazione libera, responsabile; di un giornalismo che deve però smetterla di occuparsi di pettegolezzi e soft news per dedicarsi ad approfondimenti, analisi, inchieste rigorose e documentate, in grado di offrire chiavi di lettura di una società sempre più complessa.
Gianluca Amadori, componente del Comitato Esecutivo dell’Ordine nazionale dei giornalisti, coordinatore del Gruppo di lavoro Informazione e Giustizia