Provocano sgomento le immagini che stiamo vedendo – ancora una volta – con le lunghe file di bare, marroni per i grandi bianche per i piccini, al PalaMilone, il palazzetto dello sport che ospita i corpi del tragico naufragio di Cutro. Immagini che ricordano quelle del 2013, quando di fronte ai 368 morti della strage di Lampedusa, si disse “Mai più”. Da quelle a queste vittime la conta è di oltre 26 mila persone che hanno perduto la vita nel Mediterraneo, in dieci anni scarsi. Figli di un dio minore che si possono lasciar morire in mare.
Fanno orrore le immagini di quel pezzo di costa, pieno di pezzi di relitto, di biberon, di bambole, di salvagenti arancioni, di abiti, di oggetti appartenuti a quei poveri disgraziati che hanno avuto la sfortuna di nascere col passaporto sbagliato nel posto sbagliato del mondo.
Ma suscitano sconcerto anche le affermazioni di chi, per umanità e per dovere, aveva il compito di evitare che il naufragio avvenisse. Dire che non si poteva fare nulla di più è falso. Dire che è da irresponsabili mettere in mare se stessi e i propri figli è indegno, dire che bisogna impedire le partenze è spietato.
Ora la domanda che rimbalza ossessiva nei mezzi d’informazione è se si poteva evitare. Ma è una domanda errata. Occorre invece, semplicemente, nettamente dire che si doveva evitare. Senza alcun punto di domanda. Perché l’Italia, come tutti i Paesi sulla sponda Nord del Mediterraneo hanno sottoscritto gli accordi internazionali nati apposta perché le tragedie del mare siano evitate.
Si poteva e si doveva evitare perché oggi sappiamo che 24 ore prima del naufragio l’emergenza era stata segnalata ma non è stata allertata e inviata la Guardia Costiera, che di mestiere sa fare il soccorso in mare, e lo fa molto bene.
Si poteva e si doveva evitare perché non possono essere le onde di due metri e mezzo che impediscono a un Paese tecnologicamente avanzato come il nostro di operare un salvataggio.
Si poteva e si doveva evitare consentendo alle navi della flotta civile – nata, ricordiamolo, per supplire a quel dovere di fare ricerca e soccorso a cui l’Italia e l’Europa sono venute meno – di operare e di essere presenti in quel tratto di Mediterraneo, senza criminalizzare, senza ostacolarle, senza bloccarle con i fermi amministrativi, senza ritardarne l’azione inviandole in porti lontani per tenerle più lontano possibile dalle zone di mare dove avviene il maggior numero di naufragi.
Si poteva e si doveva evitare non facendo accordi con la Turchia e con la Libia, pagando cifre da capogiro purché “ce li tengano lontani”, facendo finta di non vedere quanti e quali abusi dei diritti umani, torture, vessazioni, stupri, violenze vi avvengono quotidianamente.
Si poteva e si doveva evitare aprendo finalmente canali legali di ingresso, attraverso i corridoi umanitari e i visti che nessuno riesce a ottenere.
Si poteva e si doveva evitare perché va rispettata la nostra Costituzione, secondo la quale “lo straniero, al quale sia impedito nel suo Paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione Italiana, ha il diritto d’asilo nel territorio della Repubblica, secondo le condizioni stabilite dalla legge”.
Si poteva e si doveva evitare rispettando la legge del mare, che prevede il diritto a essere soccorsi e il dovere di soccorrere.
In barba a tutto questo, il dibattito pubblico scivola ancora sull’impedire le partenze, sul pull factor delle Ong del mare, sulla legittimità del cosiddetto sciagurato decreto Piantedosi, sulle fantasiose collusioni fra scafisti e navi che fanno ricerca e soccorso.
È davvero ora di dire basta. Basta con le menzogne, basta con le lacrime di coccodrillo, basta col cordoglio di circostanza.
Basta – anche questo va detto – con un’informazione distorsiva, ideologica, approssimativa, disinformata e talvolta dolosamente falsa. Ciascuno può esprimere le proprie opinioni, ma i giornalisti hanno il dovere di riferire “la verità sostanziale dei fatti”. E i mezzi d’informazione filogovernativi questo non lo stanno facendo. Occorre, anzi è urgente, che si cominci a parlare anche di questo. Perché troppe testate e troppi colleghi giornalisti stanno dando esempio di pessima informazione.
Sono un giornalista anch’io, ma mi trovo a presiedere ResQ – People Saving People, associazione nata per soccorrere le persone naufraghe migranti che si trovino in pericolo e per raccontare in modo corretto come e perché si affronta il viaggio della speranza, via terra o via mare, che porta centinaia di migliaia di persone a rischiare la vita pur di fuggire da guerre, dittature, carestie o povertà estrema.
ResQ è nata perché occorre essere umani con gli esseri umani, in base a un elementare semplicissimo principio: se una vita è in pericolo va salvata. Punto e basta. Non ci sono se e ma, non ci sono eccezioni, non ci sono distinzioni di passaporto, di colore della pelle, di religione, di stato sociale.
I se e i ma obbediscono alla propaganda, alla xenofobia se non al razzismo.
Occorre dirlo chiaramente. Altrimenti, il rischio è davvero alto: creare profughi di serie A e di serie B, esseri umani degni e meno degni, persone titolari di diritti e altre che non li possono godere. La nostra Costituzione è nata sulle ceneri di un’ideologia che sosteneva esattamente questo, non dimentichiamolo.
Quelle bare allineate al PalaMilone sono un avvertimento: racchiudono corpi di persone considerate un po’ meno persone, indegne anche di essere salvate da un pericolo mortale. Racchiudono esseri umani considerati “di scarto”, come dice papa Francesco. Su quelle bare si misura la coscienza dell’Italia e dell’Europa e il senso profondo delle nostre democrazie.
(nella foto la locandina della campagna “Non uccidere”)